Andrea Furcht

Alcuni contributi della demografia alla ricerca biologica ed alla riflessione etica

Parte 2 di 4


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2 Etica

Gli argomenti sin qua affrontati offrono l'occasione per alcune riflessioni di carattere etico, in senso lato. Tali riflessioni non riguarderanno direttamente le questioni più tradizionalmente associate alla demografia[1]: popolazionismo o restrizionismo (il caso dell'ammontare della popolazione è probabilmente l'unico nel quale sia rilevante la differenza tra utilità totale ed utilità media[2]), abortività e contraccezione[3], sottosviluppo e sovrappopolazione. Ci concentreremo invece su altri aspetti, meno usuali: l'utilitarismo, il pensiero utopistico, il giudizio sul progresso (cui è correlata la questione, trattata in Appendice, del concetto di Natura).

 

2.1 Una base per il calcolo morale

 

Il ricorso all'analisi della sopravvivenza si rivela determinante nell'impostazione demografica dei problemi etici[4]. Prendiamo un caso estremo, quello delle questioni cosiddette "di vita o di morte": se normalmente si ragiona in base al numero di vite coinvolte, in demografia lo si fa sommando gli anni-uomo[5] (cfr. 1.3). Una differenza non puramente accademica: l'(eventuale) ambito di applicazione non si limita infatti a scenari artificiosi quali il classico dilemma "chi buttereste giù da una torre, tre persone con speranza di vita pari a 10 anni od una con speranza di vita pari a 40?"[6]; vi sono scelte di policy collettiva[7] che richiedono una valutazione dei guadagni in termini di anni-uomo derivanti dalla riduzione di specifiche cause di morte, e di destinare quindi le risorse — che sono limitate[8] — a combatterne una piuttosto che un'altra[9] (cfr. sez.1.3). Questo criterio è evidentemente lontanissimo dalla morale del senso comune, per la quale la vita umana è un valore in sé assoluto[10] ed in quanto tale non passibile di misurazioni quantitative che in effetti possono parere un po' alla Stranamore[11]. Ma un raffronto tra affermazioni di principio e prassi quotidiana può riservare qualche sorpresa. L'incommensurabile valore della vita umana viene di fatto commensurato[12], né è immaginabile possa essere diversamente. Con una certa spesa potrebbero ad esempio venire adottate misure di prevenzione aggiuntive non solo in campo sanitario, ma anche degli incidenti (in primo luogo quelli stradali). Visto che tali possibili misure vengono in parte sacrificate ad altre esigenze (diverse destinazioni di spesa, necessità di mobilità, e così via), e che questo comporta un tributo di sangue anche misurabile rispetto alle diverse ipotesi di riduzione del rischio[13], possiamo arrivare alla conclusione predetta[14]. In fondo, applichiamo un simile principio non solo a generiche vite altrui, ma anche alla nostra. Decidiamo infatti di correre rischi, magari difficilmente quantificabili, non solo per conseguire vantaggi economici, ma anche per una vacanza od una pratica sportiva (cfr. il "dilemma dello scalatore" in Engelhardt pp.106-7). Questo vale anche al netto degli effetti psicologici di sottovalutazione del pericolo (un'esemplificazione in Broome, p.12)[15] ed implica una commensurabilità tra vita in sé e utilità personale[16]. Presumibilmente manca una concezione "probabilistica" dell'omicidio, associato invece nella coscienza comune ad azioni dalla conseguenza sostanzialmente certa — in particolare per quanto riguarda la persona gli individui colpiti. Questo può essere conseguenza non solo della mancanza di dimestichezza con l'analisi demografica ed i suoi qx, ma soprattutto del fatto che il Psv sia orientato all'azione dell'uccidere, e non alle sue conseguenze[17] — senza una vittima identificabile (cfr. nota 69: nessuno sa chi saranno quei tre bambini, è difficile immaginarsi mobilitazioni a loro favore come se invece avessero già un nome ed un volto), l'omicidio in quanto atto diventa un'entità troppo astratta per essere oggetto di riprovazione morale[18].

Il frequente appello alla dignità della persona (umana, si aggiunge spesso, ma è ridondante[19]) comporta un'altra difficoltà. Se tale richiamo è senz'altro condivisibile sul piano emotivo e soprattutto pratico — perché vale soprattutto come un monito alla prudenza, a evitare di calpestare gli altri in nome di princìpi astratti — dal punto di vista teorico pone più problemi di quanti non ne risolva. Mi pare infatti che la definizione di "dignità" sia alquanto esile: non può infatti identificarsi con l'interesse (le preferenze, o la felicità) del soggetto stesso, perché si rientrerebbe allora nell'ambito di un impianto utilitaristico rifiutato da molti di coloro che vi si richiamano; d'altronde mi pare difficile si sovrapponga totalmente con l'immagine presso gli altri[20]. Se "dignità" deriva poi da un presupposto religioso, dignità conferita da Dio alle sue creature, o almeno a quella ritenuta (da se stessa) la più elevata tra di esse (cfr. n.114), siamo evidentemente di fronte ad una definizione non condivisibile dai laici, oltreché comunque non molto operativa. è necessario a mio parere uno sforzo speculativo in questo senso, per dare forza (sia nel senso di solidità definitoria, che di potenzialità di condivisione) ad un concetto che può essere una delle guide nel difficile campo della bioetica[21]. Questo, sempre si ritenga opportuno non accontentarsi dell'intuizione o — peggio — di definizioni sostanzialmente autoreferenziali.

Il ricorso al calcolo della vita residua nelle più battute questioni bioetiche non conduce però ad un'univocità di risultati rispetto alle morali correnti. Da una parte infatti le conseguenze non sarebbero particolarmente favorevoli per anziani e malati[22], e soprattutto cadrebbero (specie accogliendo la variante presentata poco sotto) le preclusioni verso l'eutanasia. Se d'altra parte spostiamo l'attenzione sull'aborto, il risultato è diverso: la vita del nascituro potrebbe essere considerata più significativa di quella di un adulto[23]. è comunque vero che anche da un punto di vista utilitaristico possono valere anche altri criteri, in grado almeno di temperare quello considerato: ad esempio quello della sensibilità (presente, non futura) del soggetto (cfr. Defanti pp.398-9), fondamentale per il calcolo della quantità di piacere/dolore. Un'ampia discussione di tale questione in Engelhardt capp.IV e VI, alla luce soprattutto della distinzione tra persona ed essere umano.

Una logica estensione di questa impostazione è la ponderazione del tempo di vita residuo con la felicità (i più raffinati preferiranno l'utilità) attesa[24]. Una possibile formalizzazione consisterebbe in un adattamento della (8) relativa ad ex,[25]:

                                    (9)

ove Fx rappresenta la valutazione all'età esatta x della felicità relativa all'intera vita residua[26], e jx quella attesa alle singole età[27].

è chiaro che un criterio del genere, comunque di difficile applicabilità, potrebbe anche prestarsi ad abusi e forzature[28], a cominciare dalla questione di fondo della comparabilità tra la felicità di soggetti diversi. Vi sono però importanti àmbiti che non richiedono raffronti interpersonali: un esempio è l'eutanasia, per la quale la distinzione sarebbe piuttosto quella tra felicità maggiore o minore di zero nella vita residua[29]. Rimarrebbe certo il problema della trattazione cardinale dell'utilità[30]; va però ammesso che nella realtà simili calcoli felicifici, nonostante tutte le difficoltà di metodo, sono non solo concepibili ma anche effettuati (cfr. ad es. Musacchio, p.37).

 

2.2 Le utopie

 

Il dinamismo intrinseco alla dinamica demografica (specie nel passato) ha tradizionalmente messo in difficoltà gli autori di utopie: la fissità astorica sottesa a questo tipo di progetti rendeva l'aspetto demografico un inopportuno guastafeste. Molti di questi autori optarono esplicitamente per la stazionarietà della popolazione, condendo talvolta questa ricetta con raccomandazioni repressive, che paiono il viatico necessario alla felicità dell'uomo quando costruita a tavolino[31].

D'altronde è stato proprio l'argomento della popolazione il cavallo di battaglia di Malthus contro i sogni di Godwin: se veramente una società prospera ed egualitaria potesse essere edificata, e lì potessero finalmente regnare altruismo ed armonia, inizierebbe un'incontrollata ascesa demografica che divorerebbe ben presto le risorse[32]; ed allora (Malthus, pp.87-8): "Ahimè, ecco che cosa succede del quadro delizioso in cui gli uomini vivevano nell'abbondanza e non erano obbligati a soddisfare con ansia e con fatica i loro impellenti bisogni! Il quadro in cui non esisteva più il gretto principio dell'egoismo e la mente umana, libera dalle assillanti preoccupazioni dei bisogni materiali, poteva spaziare nel campo del pensiero, a lei più congeniale! Il meraviglioso castello di fantasie crolla al contatto con la realtà: il sentimento di carità, che prima veniva alimentato e rinvigorito dall'abbondanza, viene ora represso dal gelido soffio del bisogno, mentre tornano alla ribalta le passioni che sembravano scomparse; l'istinto di conservazione prevale con la sua forza sui nobili ed elevati sentimenti dell'anima e la tentazione al male si impone alla natura umana, incapace di resistere; il grano viene raccolto prima della maturazione o imboscato in modo illecito, mentre vengono a galla tutti i vizi che fanno corona alla menzogna. Le madri di famiglie numerose non riescono ad avere un po' di cibo ed i fanciulli si ammalano per la denutrizione: il roseo colorito della salute lascia il posto al pallore e agli occhi infossati della miseria. Forse rimane ancora un briciolo di altruismo in qualche cuore, ma dopo qualche timido estremo tentativo anch'esso deve cedere all'egoismo, che riprende il sopravvento e domina trionfante sul mondo."

Una prosa suggestiva ma certo un po' catastrofista[33]. Né, peraltro, immune da obiezioni: il presupposto della moltiplicazione incontrollata (anche tendenziale) della popolazione appare perlomeno azzardato[34], se riferito alla specie umana. Ci imbattiamo peraltro in un'altra questione di interesse specifico: se veramente la mortalità altro non fosse che un meccanismo di regolazione rispetto ad un plafond predeterminato, combattere le singole cause di morte equivarrebbe ad affrontare il male dai sintomi; occorrerebbe piuttosto agire sulle determinanti strutturali (la quantità di risorse o l'aumento demografico).

Che si voglia o no dare a ragione a Malthus (o dargliene a metà, che è forse la cosa oggi più sensata) il punto è questo: non si può chiudere gli occhi di fronte ad un incremento della popolazione mondiale che è stato talmente vertiginoso (e squilibrato) da mettere l'umanità di fronte alla sfida forse più seria che abbia mai dovuto affrontare. Se in molti paesi il trend della fecondità punta verso una riduzione, ciò non sarà affatto vero — in tempi ragionevoli — per l'ammontare globale della popolazione. Ogni fideismo ottimistico a questo riguardo, per quanto ispirato a buone intenzioni, rischia di rivelarsi peggio che criminale dal punto di vista dell'etica delle conseguenze (nessuna meraviglia, del resto).

La demografia[35] come l'economia si occupa dei vincoli; ha perciò una visione aggregata — diciamo pure contabile — secondo la quale le risorse (ricchezza, compatibilità ambientale, spazio) devono coprire gli aumenti di popolazione e di tenore di vita, pur tenendo conto di eventuali meccanismi quali le economie di scala[36].

Il volto seducente di molti progetti politico-sociali ha d'altronde coperto alcuni dei più orribili bagni di sangue dell'umanità[37]. Questo è avvenuto anche a causa anche della loro irrealizzabilità: e un atteggiamento pragmatico (quale viene di norma ispirato da queste discipline-cerbero[38]) avrebbero potuto evitare queste catastrofi. Forse è un compito impopolare[39], ma occorre anche una contraerea per i voli pindarici.

 

2.3 L'idealizzazione del passato e della natura

 

Va anzitutto osservato che la Natura non esiste in natura[40]. Si tratta di un costrutto particolarmente astratto, senza neppure il pregio dell'univocità[41]. Da qui gli errori di analisi tipicamente indotti dall'ipostatizzazione di concetti generici, stigmatizzati ad esempio — in tutt'altro contesto — da Gaetano Salvemini[42].

Seguiremo John Stuart Mill, che dedica alla questione (in particolare dal punto di vista morale) un saggio (On Nature) che, pur catalogato tra le opere minori e forse non radicalmente innovativo, è di grande bellezza. Il primo passo, se si vuole procedere con rigore, è compiere un'analisi semantica del termine[43] — che si rivela infatti decisamente equivoco[44]. Anzitutto "come la natura di una cosa qualsiasi è l'aggregato dei suoi poteri e delle sue proprietà, così la Natura in astratto è l'aggregato dei poteri e delle proprietà di tutte le cose" (p.14)[45]. "Nell'altro senso essa significa, non già tutto quello che accade, ma soltanto ciò che accade senza l'opera, o senza l'opera volontaria e intenzionale, dell'uomo" (p.16; si veda anche Scarpelli pp.5-6)[46]. Fin qui, poco male. Ma vi è un manifesto uso morale di "Natura"[47] — particolarmente fuorviante perché non chiaramente ascrivibile ad alcuna delle due suelencate accezioni. Il riferimento alla prima sarebbe infatti del tutto illogico[48]: "Coloro i quali dicono che dovremmo agire secondo Natura non intendono esprimere la semplice tautologia che noi dovremmo fare ciò che dovremmo fare. Essi ritengono che la parola Natura fornisca qualche criterio esterno" (p.19). Col secondo significato però andiamo molto peggio (pp.26-7): "Infatti, per quanto possa apparire una proposta offensiva per molte persone religiose, io affermo tuttavia che esse dovrebbero guardare coraggiosamente in faccia il fatto innegabile che l'ordine della natura, laddove non risulta modificato dall'uomo, è tale che nessun essere giusto e buono avrebbe potuto costruirlo, intendendo che le sue creature razionali dovessero seguirlo come esempio" (in una provvidenziale Appendice raccolgo alcune considerazioni al proposito). Puntuale allora la conclusione: "Nessuno, sia egli religioso o areligioso, crede che le azioni nocive della Natura, considerate nel loro complesso, generino dei fini buoni, all'infuori di quello di incitare le creature umane razionali a insorgere e combatterle" (p.31)[49].

Viviamo invece circondati da inviti all'alimentazione naturale, alla medicina naturale[50]. Spesso tali appelli sono completati da richiami ad "armonia" ed "energia", e da suggestioni di filosofia orientale. Questo della natura sembra essere il terreno d'incontro per atteggiamenti altrimenti inconciliabili, dal conservatorismo morale al senso comune progressista, dalle velleità "alternative" alla cultura del post-Carosello. Tra le tante qualità di John Stuart Mill, raramente viene riconosciuta la capacità profetica, eppure l'incipit del suo La natura mette il dito nella piaga con un secolo e mezzo di anticipo: "Le parole Natura, naturale (...) si sono venute mescolando a sì numerose associazioni estranee, la maggior parte delle quali di un carattere assai forte e tenace, che hanno fatto sorgere — ed anzi ne sono diventati simboli — dei sentimenti non giustificati in alcun modo dal significato originale dei termini. Questi sentimenti hanno trasformato il termine Natura in una delle fonti più copiose di cattivo gusto, di falsa filosofia, di falsa moralità, e perfino di cattive leggi" (p.13).

Sarebbe bene riflettere sul motivo del successo di questo atteggiamento, che pare affondare le radici nel senso di insicurezza scaturito da un progresso tumultuoso, che non sembriamo in grado di dominare[51]. è soprattutto la ribellione verso la società contemporanea, o meglio verso la condizione esistenziale della nostra epoca[52], a trovare talora appiglio nella nostalgia per un mitico stato naturale — mascherata magari da angoscia per il destino di un'umanità il cui arbitrio sembra non conoscere ostacoli.

Di tale origine alcune delle preoccupazioni per le possibili applicazioni dell'ingegneria genetica[53]. Non vi è tuttavia valenza di novità assoluta nel fatto che l'uomo possa dirigere la selezione[54]: e mi rifiuto di credere che i mandaranci e gli affettuosi cani boxer possano essere considerati opera demoniaca[55]. Che occorra vigilanza, che il progresso tecnologico nasconda insidie — prime fra tutte, almeno fino a oggi, quelle legate alle armi di distruzione di massa e al degrado ambientale — è fatto talmente evidente da non potere essere messo di per sé in questione[56]. è poi da vedere se il rimedio sia più scienza o piuttosto una censura sulla ricerca[57]. Tenere presente la distinzione tra mezzi e fini ci aiuta ad accogliere la sostanza dell'appello di Agazzi (cfr. Bibl.) sul ruolo della filosofia nel sostenere il progresso scientifico senza soffocarlo, intervenendo con altro tipo di razionalità per sciogliere i nodi etici che questo può creare[58] — a dispetto dell'opinione volgare che la filosofia sia inutile.

Monod ravvisava (si veda in particolare l'ultimo capitolo, Le Royaume et les ténèbres) il nucleo di questa ostilità nei riguardi dello sviluppo scientifico[59] nella nostalgia animistica[60] per l'ancienne alliance, alla base delle religioni così come di molti dogmi politici[61]. Non si tratta a mio parere di prudenza nei confronti dei potenziali pericoli o delle effettive conseguenze di un progresso incontrollato, bensì di un'avversione venata di timore superstizioso verso l'atteggiamento di hýbris in sé di un umanità che sembra svincolarsi dalla tutela di Dio o della natura[62], presenze consolatorie che esorcizzano il timore del nulla, l'apparir del vero. In questo senso vi è il pericolo che parte del dibattito (sulla bioetica o sull'ecologia, ad esempio) si incanali nel filone già presente nella Bibbia con l'episodio della Torre di Babele (se non anche della cacciata di Adamo ed Eva dall'Eden)[63]. Questo atteggiamento, già presente nei miti greci (Prometeo ed Icaro), si colora spesso di luddismo con la figura della macchina che si ribella al proprio creatore, dal Golem e dalla creatura di Frankenstein al computer Hal di Kubrick[64]. Rollin aggiunge Jurassic Park alla lista[65]; e chiosa: "This can be expressed in a variety of ways, but the most memorable would be the classic line from old horror movies — preferrably delivered by someone like Maria Ouspenskaya in a generic Mittel-Europaeisch accent — that «there are certain things man was not meant to do»" (p.21). Il senso di colpa[66] per esserci allontanati dalla natura[67] si traduce allora in un rimpianto per un passato immaginato di soavità arcadica[68] (un tic mentale, questo, che non è certo esclusivo dei nostri tempi[69]). Qui entra finalmente in scena la demografia (quella storica, per la precisione), in chiave simile (ma stavolta con valenza di ottimismo) alla sezione precedente: l'esaltazione delle magnifiche sorti e regressive dell'umanità dovrebbe essere infatti sottoposta al vaglio critico dello studio del passato. Una semplice occhiata alle tabelle di mortalità pre-transizionali, col corollario di sofferenze umane che comportavano — il fatto ad esempio che fosse normale assistere al decesso della metà dei figli — oppure qualche informazione sulla portata delle catastrofi demografiche (possiamo ricordare la Peste Nera e la Guerra dei Trent'anni[70]), possono essere sufficienti a farci accettare con maggiore rassegnazione il fatto di essere nati nel XXº secolo.

Per chi si balocca in ideali rousseauiani possono servire — ancora — le parole del più classico degli autori di dottrine demografiche, riferite ai Pellirossa: "I bambini, anche nelle classi più umili [europee] hanno bisogno di molte cure, ma queste donne non possono seguirli, condannate ai disagi e alle fatiche dei continui spostamenti ed al lavoro ingrato e senza tregua dei preparativi per il ritorno dei loro tirannici signori. Questi sforzi, spesso compiuti in gravidanza o con i bambini sulle spalle, finiscono col provocare frequenti aborti ed un'alta mortalità fra i bambini più gracili. Ai disagi delle donne vanno aggiunte le guerre, così frequenti tra i popoli allo stato selvaggio [gnwqi sauton, soggiungerebbe Socrate], e la dolorosa necessità di abbandonare gli anziani, pur bisognosi di aiuto, in violazione dei più elementari sentimenti naturali: il quadro è completo e non vi manca il sigillo della miseria. Quando si parla della felicità dello stato selvaggio, infatti, non si deve guardare unicamente al guerriero nel rigoglio della vita, perché si tratta solo dell'uno per cento dell'intera popolazione, del signore, dell'uomo fortunato cui le circostanze sono state favorevoli; e molti sforzi sono falliti prima che egli arrivasse a questo stato fortunato, protetto da uno spirito benigno che gli ha permesso di superare infiniti pericoli durante l'infanzia e l'adolescenza" (Malthus, p.22). Come diceva Hobbes — uno dei filosofi materialisti più conseguenti — la vita del selvaggio era insomma "sporca, brutale e breve" (così citato in Russell, p.284).

La demografia può insomma fare la sua parte — assieme alle altre scienze (in primis la biologia), ma anche alla riflessione filosofica — per rendere l'umanità più conscia della propria condizione[71]; per indurla ad adottare l'etica della conoscenza, idée austère et froide[72], invocata da Monod; e per infonderle quel coraggio esistenziale intessuto di orgogliosa umiltà che fu già attribuito alle ginestre.



[1] Una rassegna generale sui rapporti tra demografia e morale, anche alla luce del dibattito in Italia, si trova nel contributo di De Sandre.

[2] Cfr. Harsanyi p.59 in Sen e Williams e Engelhardt pp.131-2; una discussione generale della questione in Broome (in particolare da p.14 in poi).

[3] L'indagine demografica costituisce un preliminare passo conoscitivo indispensabile per trattare le questioni relative alla riproduzione umana, fondamentali in bioetica. Non mi riferisco solo alla raccolta, analisi e interpretazione dei dati su fecondità, natimortalità e abortività. Ad esempio, è anche possibile chiarire le conseguenze a lungo termine di un'eventuale procreazione artificiale di massa, al di fuori magari della coppia o degli attuali limiti biologici di età feconda, o comprendente la scelta del sesso del nascituro (cfr. sez. 1.2).

[4] Intendo designare con questa espressione un approccio alle questioni morali basato per analogia su alcuni metodi impiegati in demografia; non si tratta perciò di un atteggiamento necessariamente condiviso da tutti (o nemmeno dalla maggioranza) dei demografi.

[5] Formalmente esprimibili in anni vissuti Lx (cfr. n.13). Per formulazioni più raffinate si veda Broome, cfr. nota 86.

[6] Engelhardt (p.40) accenna alla "forza euristica" degli esempi estremi. è d'altronde stato sostenuto che esasperare artificiosamente le situazioni di riferimento può fare male al pensiero morale (cfr. Rollin pp.9-10, che a p.7 formula la "legge di Gresham dell'etica": "Bad [vale a dire, semplificato ed estremizzato] moral thinking tends to drive good moral thinking out of circulation").

Un motivo per ricorrere a tali esemplificazioni è che i metodi di valutazione etica dell'intenzione e delle conseguenze (più nel caso dell'utilitarismo delle regole che in quello dell'utilitarismo dell'atto), in molte circostanze ordinarie — con significative eccezioni, ad esempio nella morale sessuale — convergono nelle conclusioni specifiche. Veronesi scrive, ad esempio: "...chi, come me, ha una lunga esperienza nella conduzione di un comitato etico ospedaliero, non può non osservare come le differenze ideologiche, politiche e religiose dei membri del comitato stesso, se rendono aspro il dibattito su questioni di principio, tendono viceversa ad avvicinarsi e a conciliarsi nelle soluzioni da proporre in ogni singolo caso concreto" (Introduzione a Engelhardt, p.IX).

[7] Non solo quelle però, talvolta le alternative che si pongono implicano veramente drammatiche scelte tra persone ben individuate. Scarpelli p.12  menziona al proposito la scelta del beneficiario di un organo disponibile per il trapianto, con conseguente preferenza a favore dei giovani (si tratta di un'implicita applicazione del principio dell'ammontare di vita residua, visto che il rapporto quantitativo tra i possibili beneficiari è comunque 1:1). Una posizione che trovo coraggiosa e anche opportuna, se l'etica deve essere una guida per le scelte pratiche.

Lo affermo anche se è difficile non essere toccati — senza necessariamente esserne convinti — dalle perplessità di Berlinguer (pp.64-5), che scrive a proposito della bioetica giustificativa (cfr. nota 117): "Il terzo esempio riguarda i princìpi morali atti a guidare la distribuzione delle risorse destinate alle terapie, che non possono certamente essere illimitate. Si parla ora di «razionamento delle cure». Mentre però il razionamento nei tempi di guerra era fatto su basi egualitarie, ora vi sono economisti, filosofi e anche medici i quali propongono non come rendere meno dispendiose e più efficaci le cure, o come distribuirle più equamente, bensì come scegliere chi curare e chi no (...) Più recentemente una forte corrente bioetica negli Stati Uniti ha proposto di selezionare i curandi in base a un criterio «assolutamente oggettivo»: la qualità di vita che è possibile raggiungere con la terapia. Un saggio di Roberto Bucci [Etica e mercato nella sanità, Ediesse, Roma, 1996] ha dimostrato come ciò porti ad annullare il valore intrinseco che ha ogni vita umana; come questo criterio «oggettivo» elimini dal conto la valutazione qualitativa che ogni persona attribuisce alla propria esistenza (anche se paraplegico od anziano per esempio [si veda la n.75]); e come in definitiva ciò conduca inesorabilmente a gravi e arbitrarie discriminazioni. Le giustificazioni di questa selezione umana continuano tuttavia a diffondersi, guarda caso in un periodo in cui la spesa sanitaria è sotto accusa come causa di rovina dell'economia". In disaccordo da questo genere di obiezioni è ad esempio Harsanyi (1994, p.114).

[8] Cfr. Neri (1997) pp.63-4, tutto l'intervento di Jori, e Paci che annota (p.76): "Il razionamento — parola che forse troppo ricorda i momenti della guerra — è praticato nei fatti ed avviene — anche in presenza di sistemi efficienti — in maniera implicita e spesso ingiusta".

[9] Un esempio tra i tanti possibili, tratto dal "Corriere della salute" (Fronte 1999): "…almeno per la leucemia infantile, i ricercatori hanno potuto tirare le somme: i campi elettromagnetici non fanno quasi nulla. O meglio, per dare un valore numerico al rischio, «l'Istituto superiore di sanità ha calcolato che su tutta la popolazione italiana ogni anno i casi di leucemia provocati da queste emissioni sono circa tre» esemplifica Comba. Un numero esiguo se confrontato con gli oltre 400 casi di leucemia infantile che si registrano in Italia ogni anno. Non perché non si voglia evitare che quei tre bambini si ammalino, ma perché per annullare questo effetto si dovrebbero spendere miliardi. Soldi che potrebbero salvare molte più vite se impiegati, ad esempio, in una campagna contro il fumo".

[10] Rifkin, citato stavolta in Rollin p.24, attacca il riduzionismo materialistico affermando che "By this kind of reasoning all of life becomes desacralized". Sul "principio di sacralità della vita umana" (Psv), pilastro dell'etica tradizionale, si veda l'intervento di Mori 1993, pp.22-3: "Di solito il Psv è giustificato da qualche dottrina religiosa, ma i due aspetti vanno tenuti distinti dal momento che con «sacralità della vita» si intende qui semplicemente l'assoluta intangibilità o l'assoluta inviolabilità della vita umana (...)". Sfumature diverse in Defanti, pp.396-7: "Il nòcciolo di questa dottrina sembra risiedere nell'idea che la vita umana è dotata di un valore intrinseco che la rende sacra, cioè inviolabile; come corollario, ne discende che è sempre moralmente sbagliato uccidere essere umani innocenti. Ciò che rende moralmente sbagliata un'azione siffatta [l'omicidio] non sono le conseguenze che ne derivano, sull'ucciso e sugli altri, ma l'atto stesso dell'uccidere [e qui siamo alla distinzione tra etica consequenzialista e etica deontologica — cfr. Mori 1993 p.22 per il richiamo a Sidgwick e Scarpelli p.12 per quello a Weber; si veda anche Engelhardt (ad es. pp.98-9). Una discussione dal punto di vista dell'utilitarismo della regola in Harsanyi 1994, p.101]. (...) Rispetto assoluto della vita umana non significa, neppure nella concezione cattolica, che la vita sia un valore assoluto o che vada preservato ad ogni costo, ma semplicemente che non è mai lecito alcun atto inteso deliberatamente alla soppressione della vita". Sul PSV si veda anche Milano, pp.161-2. Un punto di vista esemplarmente contrapposto è quello di Engelhardt (p.272): "Ciò che è sbagliato nell'assassinio non è togliere la vita a una persona, ma il fatto che essa viene tolta senza il permesso di quell'individuo e che, inoltre, in molte circostanze, si tratti di un atto malevolo".

[11] Il discredito generalizzato cui sono presumibilmente destinate soluzioni quali quella proposta da Scarpelli (precedenza ai giovani nei trapianti, cfr. nota 67) deriva dalle premesse stesse: il male è insomma pre-esistente alla scelta morale compiuta in casi drammatici, il male è che in ogni caso qualcuno debba venire buttato giù dalla torre. La procedura di scelta può sembrare inumana, e forse lo è (ma Jori annota, a p.81: "A torto l'atteggiamento etico che tiene conto della realtà ci appare spietato e intollerabilmente razionalistico"): un approccio utilitarista attento terrebbe conto di questa circostanza, così come della sofferenza (della vittima, dei parenti, degli amici) legata ad ogni decesso, nonostante questo sia un evento ineluttabile, per quanto posticipabile. Se non iper-semplifichiamo (cfr. nota 66), i criteri morali tenderanno nella pratica a fornire indicazioni simili: anche per un utilitarista dell'atto vi sarebbe un premio a salvare vite rispetto a quanto potrebbe risultare dal puro calcolo in termini di vita residua.

[12] Non sono mancati tentativi, anche recenti, di una valutazione in termini economici (Broome p.11 ci ricorda, del resto, quanto sia labile il tabù relativo alla traduzione degli anni di vita in equivalente monetario; cfr. anche nota 74) — del resto effettuata correntemente, anche se senza ambizioni filosofiche, nel ramo assicurativo. Possiamo ricordare un esempio più antico, Petty, che ben si inserisce nel filone di cinismo tipico degli scrittori britannici dell'epoca mercantilista, da Hobbes a Swift e Mandeville. Leggiamo infatti nei Petty Papers: "Supponiamo che nei territori del Re ci siano 9.000.000 di abitanti, dei quali 360.000 muoiono ogni anno e dei quali nascano 440.000. E supponiamo che per il progresso della medicina una quarta in più nasca ed una quarta parte in meno muoia. Allora il re guadagnerà ed avrà salvi 220.000 sudditi per anno, il che al valore di 20 sterline, il prezzo minore per gli schiavi, darà 4 milioni all'anno di beneficio per il Commonwealth" (Furcht 1985, p.501, citato da Moretto).

[13] Le probabilità di morte qx, eventualmente calcolabili separatamente per causa, sono una delle variabili-cardine dell'analisi demografica.

[14] Per dirla con Paci, p.76: "Solo teoricamente infatti diciamo 'per la salute tutto, la salute non ha prezzo': nella realtà esistono vincoli e risorse limitate". Engelhardt mette i piedi nel piatto: "Nessuno, per quanto sia capace di intendere e di volere e arzillo, ha il diritto di essere un uomo o una donna da sei milioni di dollari" (p.357).

[15] Tipiche probabilmente dell'età giovanile, quando pur la posta in gioco è più alta perché maggiore il tempo residuo che si rischia. Adriano ricorda così la propria giovinezza: "La maggior parte delle mie sedicenti prodezze, d'altro canto, non erano che bravate inutili (...) All'età che avevo, questo coraggio insensato persisteva incessante. Un essere ebbro di vita non pensa alla morte; la morte non esiste; ciascuno dei suoi gesti la nega. Se ne è colpito, probabilmente non se ne accorge; per lui, essa non è che un colpo, uno spasimo. Sorrido amaramente nel ripetermi che oggi, su due pensieri, uno lo dedico alla fine, come se si dovessero far tante storie per convincere all'inevitabile questo nostro corpo logorato. A quei tempi, invece, un giovane che avrebbe perduto molto a non vivere qualche anno di più, rischiava il suo avvenire allegramente ogni giorno" (Yourcenar, pp.53-4). Una lucida disamina di questo aspetto, con un riferimento letterale al calcolo delle utilità, nello Zibaldone, pp.206-8.

[16] Non mi pare decisiva, specie per quanto riguarda le decisioni pubbliche, la possibile obiezione che questo si debba all'incoerenza del comportamento umano quotidiano (che è sicuramente rilevante, si veda Broome pp.11-12). Anche dal punto di vista individuale, il fatto che si viva solo un numero limitato di anni rende razionale arrischiare la vita residua per un adeguato guadagno atteso in termini di miglioramento di una significativa porzione di esistenza (si veda la fine di questo paragrafo). Possiamo addurre esemplificazioni assai lontane dall'ardore degli sport estremi, rifacendoci a Rollin, p.45: "Even if obesity does shorten life, does it follow that it ought be corrected? (...) even if I am informed — nay, guaranteed — that I will live 3.2 months longer if I drop forty-five pounds, it is perfectly reasonable for me to say that I would rather live 3.2 months less and continue to pig out"; ancora più chiaro a p.79: "I ride motorcycles and I derive great pleasure from doing so. Obviously, I risk greater chance of injury on the cycle than I would if I traveled by auto or tank. Yet i am prepared to take that risk because of the pleasure I derive from motorcyles. By the same token, consider one's eating behavior. Evidence indicates that, all other things being equal, we are likely to live a bit longer by staying thin and avoiding fats. if such a regimen increases my statistical life span by a month, is it irrational to flout it? Or is a lifetime of éclairs and french fries a fair trade for a life shorter by a few weeks? Clearly, one's value system will determine the choice". Un esempio più nostrano con la citazione del produttore di vini Giacomo Bologna, che ho trovato sulla carta dei vini del ristorante Luciano Momini di Grosseto, e disponibile in Internet all'URL http://www.il-vino.com/braida/: "Costruitevi una cantina ampia, spaziosa, ben aerata e rallegratela di tante belle bottiglie, queste ritte, quelle coricate, da considerare con occhio amico nelle sere di Primavera, Estate, Autunno e Inverno sogghignando al pensiero di quell'uomo senza canti e senza suoni, senza donne e senza vino, che dovrebbe vivere una decina d'anni più di voi...".

[17] è possibile che a tale atteggiamento etico  (cfr. Defanti in nota 70) corrispondano precise strutture neurologiche – con prevedibile scandalo di Rifkin, citato nella stessa nota. Scrive infatti Di Giorgio: "le ricerche di un gruppo di scienziati dell'università di Princeton hanno inaugurato le indagini sulle basi biologiche delle scelte morali. Scoprendo che quando siamo alle prese con un dilemma etico non lo affrontiamo sempre con le sole armi della razionalità. Secondo quanto riferito su "Science" da Jonathan Cohen e colleghi, se la situazione da cui nasce il dilemma è "impersonale" (è lecito lasciar morire una persona per salvane cinque?) nel cervello si attivano solamente le aree responsabili del pensiero analitico e azionale, come la corteccia prefrontale. ma se il problema diventa più "personale" (è lecito uccidere una persona per salvane altre cinque?), ad attivarsi sono anche, anzi soprattutto, i sistemi neurali responsabili delle emozioni".

[18] Istruttiva al proposito la parabola alla base di Un mandarino per Teo di Garinei e Giovannini: "la morte di un anziano mandarino in Cina vi arricchirebbe immensamente: lo uccidereste voi premendo un campanello, senza poi vederne o saperne altro?" (evocata ad altro proposito da Ginzburg nel Corriere della Sera — cfr. Polese; personalmente la ricordo in una vecchia versione televisiva di Bramieri). Anche qui la resistenza all'omicidio diminuisce con la sostanziale inidentificabilità della vittima — si pensi anche a quanto affermato alla n.25.

[19] A meno di non voler accogliere l'interessante distinzione di Engelhardt (p.126): "… non è necessario che tutte le persone siano esseri umani. L'arcangelo Gabriele che appare a Maometto nel deserto, ed E.T. che attraversa una moderna città americana del ventesimo scolo costituiscono esempi di entità che sono persone, anche se chiaramente non sono esseri umani. Ciò che caratterizza le persone è la loro capacità di essere autocoscienti, razionali, e interessate al merito di biasimo ed elogio. (…) D'altra parte, non tutti gli esseri umani sono persone."

[20] Normalmente viene fatta un'associazione con il concetto di "rispetto". I sociobiologi sarebbero probabilmente felici (o forse lo hanno già fatto) di trovarvi un valore adattativo, legato presumibilmente alla vita sociale degli animali di branco; un accenno in questo senso in Harsanyi 1994, pp.57-8.

[21] Cfr. Scarpelli pp.8-9 e Defanti pp.393-5.

[22] Più propriamente, vi sarebbe una preferenza negli investimenti di risorse per altri tipi di interventi (a favore di chi si aspetta maggiore utilità dal tempo di vita guadagnato).

[23] In realtà, la speranza di vita di un embrione è, in misura però impossibile a definirsi, drasticamente ridotta da un'elevatissima probabilità di morte almeno fino a poco dopo la nascita. Su questo cfr. Mori 1997, pp.72 , 73 e il §1.6; si vedano ancora Engelhardt pp.131 e 276, H.Harris, App.1, e Soliani e Lucchetti §2. Per un riepilogo di recenti lavori sull'argomento cfr. Frova e Vasselli — che riportano una probabilità di arresto del 12-20% per le gravidanze clinicamente riconosciute e un 35-42% di aborti antecedenti la diagnosi di gravidanza (pp.61-2).

[24] "[Metafisico:] Dico che l'uomo non desidera e non ama se non la felicità propria. Però non ama la vita, se non in quanto la reputa instrumento o subbietto di essa felicità. (...) E poiché non il semplice essere, ma il solo essere felice, è desiderabile; e la buona o cattiva sorte di chicchessia non si misura dal numero dei giorni" giacché vi sono "quegli smisurati intervalli di tempo nei quali il nostro essere è piuttosto durare che vivere (...) ma in fine, la vita debb'essere viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio" (Leopardi, Dialogo di un Fisico e di un Metafisico). Seneca scriveva "il bene non sta nel vivere, ma nel vivere bene. Il saggio, perciò, vive finché deve, non finché può" (da Sulla tristezza della vita, cit. in Engelhardt p.359). Ma ancora più chiaro, del resto, il legame con la lezione epicurea: "Il saggio invece né rifiuta la vita né teme la morte; perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere. E come dei cibi non cerca certo i più abbondanti, ma i migliori, così del tempo non il più durevole ma il più dolce si gode" (Epicuro citato da Cescatti in nota al De rerum natura, p.251).

[25] Si veda anche la formula proposta da Engelhardt (pp.266 e 357): "Forza del dovere di beneficenza = (Possibilità di successo ³ Qualità della vita ³ Lunghezza della vita)/Costi"; si noti, per inciso, che si tratta di un rapporto benefici/costi ponderato per le probabilità di successo, analogo quindi a quello presentato nella (4).

[26] Eventualmente scontabile (cfr. Broome p.10) per un "tasso di impazienza" o di "certezza": meglio un uovo oggi che una gallina domani.

[27] Broome menziona due misure usate per valutare i trattamenti medici: gli "healthy-years equivalents": "For each option X and for each person, the option's healthy-years equivalent H(X) is defined as the number of years of healthy life that the person finds indifferent to X" (p.8), e i "Qalys" (quality-adjusted life years): "The value of life is calculated as its length in years, adjusted for the quality of these years: a year in a wheelchair, or blind, is counted less than a year in good health" (p.10).

[28] Una delle allucinate visioni di Hinton, Il re di Persia, può leggersi come un apologo quasi caricaturale — involontariamente, ritengo — dell'approccio quantitativo-utilitaristico. Sul problema dell'aborto terapeutico, per esempio, troviamo il passo: "I nati nella valle che presentassero malattie incurabili o qualche evidente deformità, o che per la loro gracilità fossero ritenuti causa più di dolore che di piacere, dovevano essere immediatamente soppressi. Il vantaggio per gli abitanti della valle era, ai loro occhi, enorme: la loro vista non sarebbe stata offesa da deformità e la penosa incombenza di badare ai malati avrebbe subito un notevole calo con la trasformazione del decreto in legge" (Hinton, pp.115-6). Eppure non siamo qui così lontani dalle sofferte (cfr. p.22) riflessioni di Engelhardt — si vedano ad esempio i capp.VI e VI, e particolarmente un passo a p.274: "… sarebbe corretto incoraggiare la distruzione di tutti i feti lesi o deformi, perché è meglio per le persone non avere handicap. Al di là delle preoccupazioni di salvaguardare le risorse pubbliche dall'onere di provvedere a questi individui, questo interesse per una migliore condizione delle persone è forse più estetico che morale. Finché l'esistenza di quelle persone è migliore del non esistere affatto, si fa loro del bene generandole. Eppure, come sottolineavano i greci, c'è una bellezza nei corpi e nelle menti sani e integri che dovrebbe essere perseguita. Questo senso di «dovere» fa parte più di una visione della vita esteticamente bella che di una visione della vita moralmente buona [ritengo pertanto, ma confesso di non esserne sicuro, che Engelhardt non sottoscriva quest'ultimo punto di vista]". Vale comunque anche per l'utilitarismo —  soprattutto se inteso come appello alla prudenza — il richiamo di Ricken contro un deduttivismo eccessivamente rigoroso in etica (p.22).

[29] Sulla questione vedi ad esempio Russell pp.188-9, Hume (citato in Engelhardt p.359) e gli interventi di Morison, Neri (1996) e Flores d'Arcais {b}. Leggiamo nello Zibaldone (p.17): "Un esempio di quando la ragione è in contrasto colla natura. Questo malato è assolutamente sfidato e morrà di certo tra pochi giorni. I suoi parenti per alimentarlo, come richiede la malattia in questi giorni, si scomoderanno realmente nelle sostanze: essi ne soffriranno danno vero anche dopo morto il malato; e il malato non ne avrà nessun vantaggio e forse anche danno, perché soffrirà più tempo. Che cosa dice la nuda e secca ragione? Sei un pazzo se l'alimenti. Che cosa dice la natura? Sei un barbaro e uno scellerato se per alimentarlo non fai e non soffri il possibile. è da notare che la religione si mette dalla parte della natura".

[30] Sulle difficoltà del calcolo felicifico, ed in particolare sull'utilità cardinale e la comparabilità interpersonale, vedi Harsanyi (pp.64-7 in Sen e Williams; Harsanyi 1994 in molti passi — specialmente il II.5, il VI.8 e l'Appendice) e Musacchio (cap.3).

[31] Per un'analisi approfondita di questo legame si veda il cap.IIIº di Popper, ove si mette in rilievo (cfr. specialmente pp.72-3 e 87) come il progetto utopistico comporti nei fatti lo sforzo di plasmare gli individui in funzione della meravigliosa società della quale dovrebbero essere i beneficiari. Se le scarpe sono strette, insomma, meglio cambiare i piedi.

[32] Prima di lui, già Wallace (citato in Furcht 1985, p.260, da Frohneberg, p.74) scriveva: "Under a perfect government the inconveniences of having a family would be so intirely removed, children would be so well taken care of, and every thing become so favourable to popolousness, that though some sickly seasons or dreadful plagues in particular climates might cut off multitudes, yet in general, mankind would encrease so prodigiously, that the earth would at last be overstocked, and become unable to support its numerous inhabitants."

[33] Una tendenza questa comune a molti demografi (e magari anche a qualche economista), che ha anche una certa valenza darwiniana, perché una certa dose di catastrofismo aiuta a trovare un uditorio più attento. Questo al di là del compiacimento un po' meschino che le formiche amano sfoggiare nei confronti delle cicale.

[34] Wrigley osserva al proposito: "Vi è una certa ironia nel fatto che Malthus avesse elaborato le sue teorie proprio in quel preciso momento storico. Per quanto la formulazione del problema creato dalle forze intrinseche dell'incremento demografico abbia i suoi punti deboli, il concetto di tensione inevitabile tra i i mezzi di sussistenza e la pressione del numero era esatto e pertinente allo studio delle condizioni del momento. Però Malthus visse proprio negli ultimi anni in cui era possibile pensare in quei termini" (p.53, in Furcht 1985, p.122).

[35] Intesa qui nel senso più lato, come teoria generale della popolazione.

[36] Una versione più raffinata di questo tipo di controllo può prendere in considerazione non solo i livelli assoluti, ma anche i ritmi del cambiamento, che devono essere sostenibili dal sistema.

[37] Annota Harsanyi (1994, p.103): "... un utilitarista non può considerare sempre come un fatto positivo livelli molto alti di impegno morale e ancora meno livelli molto alti di fedeltà moralmente motivata a ideali politici. Una grande fedeltà ai propri valori morali richiede una forte disponibilità a sopportare sacrifici anche gravi per essi. Sfortunatamente, l'esperienza mostra che la gente di questa tempra è spesso ugualmente disposta a sacrificare gli altri in loro nome: la devozione a ideali politici e morali molto alti si sposa spesso con un fanatismo morale e politico dalle conseguenze socialmente disastrose." Si veda anche Engelhardt p.66.

[38] Cfr. Popper p.63, che cita anche un passo di von Hayek ("… l'economia sviluppata soprattutto in seguito all'esame e alla confutazione di successive proposte utopistiche…"). Per quanto riguarda la demografia, al tema classico della sovrappopolazione possiamo oggi affiancare quello dell'invecchiamento (si pensi al dibattito sulle prospettive del sistema pensionistico).

[39] Hume, trattando del rapporto tra filosofia profonda e filosofia facile tesse l'elogio della prima, meno grata al pubblico, anche perché "un considerevole vantaggio risulta dalla filosofia rigorosa ed astratta, ed è che essa promuove la filosofia facile e umana, la quale, senza la prima, non può mai conseguire un sufficiente grado di esattezza nei suoi sentimenti, precetti o ragionamenti. (...) L'anatomista presenta agli occhi gli oggetti più spiacevoli e rivoltanti, ma la sua scienza è utile al pittore per disegnare anche una Venere o un'Elena" (Hume, Ricerca sull'intelletto umano, Sez.Iª: Le differenti specie di filosofia, in: Opere filosofiche, pp.7-8; cfr. più oltre la n. 131). Si ricordi anche l'impostazione epicurea (cfr. Brun p.12), che arriva sino a Monod (e si veda anche Mill, p.22): le prescrizioni morali — oggetto fruibile della filosofia — derivano dalla fisica; vedi però anche la nota 48.

[40] Voltaire (citato in Krings, Baumgartner e Wild, p.1328) scriveva nel Dizionario filosofico, voce Nature: "[Natura]: Mi si è dato un nome che non mi si addice: mi si chiama natura, mentre sono in tutto e per tutto un artificio". Citato anche in Lenoble, p.381.

[41] Scarpelli scrive (p.5): "Credo che a questo punto non si possa sfuggire alla domanda, che cosa si possa intendere per «natura». Dobbiamo a nostra volta fronteggiare la grossa difficoltà, tante volte segnalata dai classici, per esempio Hume quando in A Treatise on Human Nature si domandò se sopra la natura possano fondarsi conclusioni morali: l'incertezza di significato inerente alla parola «natura», «della quale nessuna è più ambigua ed equivoca». Aggiungo quanto Hume scrive nella Ricerca sui princìpi della morale: "La parola naturale si prende comunemente in tanti sensi ed è di significato così poco compatto che sembra inutile discutere se la giustizia sia o non sia naturale" (Opere, p.324); si noti però che Hume ricorre spesso al termine anche nella stessa opera, si vedano gli esempi di p.237 e 242; cfr. anche la nota 33 qui.

La voce Natura dell'Enciclopedia di Diderot e d'Alembert recita "Natura, termine vago" (cfr. Lenoble, 380), così come oggi il Dizionario di filosofia di Runes la voce si apre con le testuali parole: "Termine sommamente ambiguo". Si veda anche Lenoble, pp.257-8 e 275-6.

Già alla fine del XVIIº secolo, scontrandosi con l'opposizione di Leibniz, sia Boyle (1686) che, sulla sua scia, Sturm (1689) proponevano di abolire l'uso del termine (sui rapporti tra i due, e con Leibniz, cfr. l'Introduzione a Boyle, p.XXVII). Quest'ultimo scriveva: "nell'intera filosofia non vi è nulla di più equivoco ed indeterminato della parola che le dà il nome, la parola phýsis, che la gente di lingua latina rende con il termine di natura" (cfr. Krings, Baumgartner e Wild, p.1326; essi aggiungono un ulteriore riferimento humiano, i Dialoghi sulla religione naturale). Il testo di Boyle è stato recentemente ristampato (cfr. Bibliografia): lo scritto — centrale per la riflessione su questo argomento — è fondato sul tema dell'ambiguità del concetto di natura. La preoccupazione di Boyle non era solo che non si facesse velo alla speculazione scientifica, ma soprattutto che non fosse tolto rilievo al ruolo diretto di Dio nella creazione. Così a p.17: "I have sometimes seriously doubted whether the vulgar notion of nature has not been both injurious to the glory of God, and a great impediment to the solid and useful discovery of his works". E in più passi richiama il timore che si faccia della natura una semi-divinità (cfr. specialmente pp.45 e segg.).

[42] "L'insieme di questi fatti, noi lo indichiamo con un termine unico: "Rivoluzione Francese"; il quale ci consente di richiamare alla memoria l'insieme complessivo degli avvenimenti, senza dovere volta per volta ripeterne la enumerazione particolareggiata. Ma l'uso dei nomi personali e concreti ci ha così assuefatti a vedere dietro a ogni nome una entità reale, che noi finiamo molto spesso col personificare anche i nomi collettivi e astratti. E allo stesso modo che pensiamo la malattia come un'entità concreta esistente al di fuori e al di sopra dell'ammalato, così trattiamo la Rivoluzione come qualcosa di esistente al di fuori e al di sopra degli uomini che vissero nel periodo rivoluzionario. E come diciamo che la malattia ha ucciso l'ammalato, mentre in realtà è l'ammalato che è morto presentando certi sintomi morbosi, così diciamo che la Rivoluzione ha distrutto i diritti feudali, ha proclamato i diritti dell'uomo, ha detronizzato Luigi XVI. La Rivoluzione non ha fatto mai nulla di tutto questo. Essa altro non è se non un termine collettivo astratto, mediante il quale noi denominiamo con grande risparmio di tempo i nobili spogliati dai plebei dei diritti feudali, i plebei proclamanti i diritti dell'uomo, il re destituito di ogni autorità, e tutti gli altri avvenimenti del periodo rivoluzionario. L'abitudine presenta molti vantaggi e nessun danno, a condizione che il pensiero si tenga pronto a sostituire al termine astratto il termine concreto. (...) Il pericolo incomincia quando facciamo operare la Rivoluzione come una persona in carne e ossa, come una causa storica sdoppiata dagli avvenimenti e creatrice degli avvenimenti stessi." (pp.2-3). In realtà già Boyle (pp.32-6) era molto preciso su questo, proprio a proposito del termine "natura"; ma all'acutezza del pensiero non corrisponde — ahimè — altrettanta spigliatezza stilistica: ho quindi preferito sostituire la citazione.

[43] Così procedeva anche Boyle, cfr. in particolare pp.22-3.

[44] Darwin stesso non si distinse per grande prudenza a questo proposito (lo rileva anche Omodeo nell'Introduzione, p.21); anche se esplicitamente annota (successivamente alla prima edizione, però) che: "... è difficile evitare di personificare la parola Natura; ma, con natura, io intendo soltanto il complesso dell'azione e del risultato di molte leggi naturali e, per leggi, intendo la sequenza degli eventi, che noi possiamo osservare" (p.132); e all'espressione "la natura non guarda alle apparenze" (p.102) aggiungerà poi un meditato "mi sia concesso di personificare la conservazione naturale del più adatto"(ancora p.132).

[45] "[Natura] Io sono il grande Tutto" (Voltaire, sempre in Krings, Baumgartner e Wild, p.1328); cfr. anche Holbach, p.34.

[46] Lecaldano (p.61) ricorda che la "(...) presunta differenza ontologica tra naturale e artificiale [è] giustificabile solo con assunzioni metafisiche criticamente insostenibili".

[47] "Il termine "contro natura" non ha cessato di essere uno degli epiteti più ingiuriosi" (Mill, p.18). Ricorda al proposito Scarpelli (p.5): "La bioetica di Dante condanna all'inferno chi pecca «spregiando natura e sua bontade» [su questo cfr. Lenoble p.297]: così nell'inferno troviamo la nobile, umanissima figura di Brunetto Latini. Ancora la bioetica contemporanea, e non solo quella di intonazioni conservatrici, mostra una forte tendenza a risolvere i suoi problemi mediante un appello alla natura. Vi sarebbero comportamenti «naturali», di valore positivo, e comportamenti «innaturali», o, all'estremo «contro natura», di valore negativo". Si vedano anche Russell, pp.205-6 (Rassegna di assurdità intellettuali) e Flores d'Arcais {b}, p.33.

[48] "Quando si asserisce, direttamente o indirettamente, che ci si dovrebbe conformare alla Natura, o alle leggi della Natura, si vuol forse intendere la Natura nel primo senso di tale termine, cioè nel significato di tutto ciò che è: dei poteri e delle proprietà di tutte le cose? Ma se si intende il termine Natura in questo significato, non vi è alcun bisogno di raccomandare di agire secondo la Natura, poiché è proprio ciò cui nessuno può sottrarsi, sia che agisca bene, sia che agisca male. (...) Allorché io uso volontariamente i miei organi per cibarmi, questo atto e le sue conseguenze avvengono secondo leggi della Natura: se invece di cibo io ingoio del veleno, il caso sarà esattamente lo stesso. Il richiedere alle persone di conformarsi alle leggi della Natura, quando esse non hanno alcun potere all'infuori di quelli forniti dalle leggi della Natura (...) risulta un'assurdità. Ciò che occorre dir loro è, invece, quale particolare legge della Natura esse dovranno usare in un determinato caso. Per esempio, quando una persona sta attraversando un fiume su di una passarella stretta senza parapetto, farà bene a regolare i suoi movimenti secondo le leggi dell'equilibrio dei corpi in moto, anziché conformarsi soltanto alla legge di gravità, e cadere così nel fiume" (pp.20-1).

[49] Possiamo pensare anche ad un'altra grande — per quanto piuttosto ignorata — figura coeva (i due sono vicini per molti altri motivi), così evocata da Meriggi, p.155: "Cattaneo, invece, credeva nella storia, cioè nella capacità dei singoli e delle comunità umane di costruire e di inventare, sottraendosi all'ipoteca della natura, della tradizione e del pregiudizio". E Leopardi nello Zibaldone parla della "grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura" — citato in nota alla Ginestra, p.295, se ne vedano naturalmente anche i vv. 126-157. Brun ricorda del resto che "alla fine del suo Discorso sul metodo Descartes lanciava un appello ai sapienti del suo tempo perché unissero i loro sforzi per «renderci padroni e possessori della Natura»" (p.102). A questo proposito merita un accenno Freud che scrive, rifacendosi implicitamente a Hobbes: "Ma come sarebbe ingrato, e soprattutto miope, mirare all'abolizione della civiltà [nonostante le rinunce che essa impone]! Ciò che poi rimarrebbe sarebbe lo stato di natura, ed esso sarebbe di gran lunga più gravoso da sopportare. è vero, la natura non esigerebbe da noi alcuna restrizione pulsionale, ci lascerebbe liberi; ma essa ha il suo modo particolarmente efficace di raffrenarci: ci annienta freddamente, crudelmente, in maniera che a noi appare cieca, servendosi, se mai, proprio dell occasioni del nostro soddisfacimento. A causa di questi pericoli, con cui la natura ci minaccia, ci siamo uniti e abbiamo creato la civiltà, che deve anche, fra l'altro, rendere possibile la nostra vita associata. Il compito principale della civiltà, la sua ragion d'essere, è appunto di difenderci contro la natura" (p.53).

[50] Che sia il fascino della magia ad alimentare il richiamo delle medicine "eretiche" è ipotesi adombrata in Lenoble, p.44; sul rapporto con l'atteggiamento "New Age" cfr.Lacroix p.23.

[51] Cfr. ad es. Viano p.14, che menziona "una certa interpretazione della scienza moderna che nel frattempo si è affermata (...) il sapere non avrebbe più potuto rendere accessibile l'ordine naturale, e anzi sarebbe divenuto un elemento di disturbo per esso. Molte immagini diffuse della medicina contemporanea, che anziché procurare benessere e utilità all'uomo rischierebbe di diventare la sua nemica, infliggendogli soprattutto sofferenze, sono confezionate con suggerimenti ricavati dalla polemica contro il carattere utilitaristico della scienza contemporanea e contro la minaccia che la produzione industriale rappresenta per l'equilibrio naturale". Vedi anche Mori 1993, p.20, Paci, p.74 e Lacroix.

[52] In simili atteggiamenti impregnati di romanticismo ho creduto di ravvisare anche la matrice di molte posizioni radicali (pro o contro) l'immigrazione — rimando a Furcht 1993 (specie 3.2 e 3.3) per alcune considerazioni sul concetto di "identità culturale" e sull'anelito messianico intrecciato a molte di tali posizioni (vedi anche nota 125). Quanto di romantico sia rimasto nel senso comune riguardo la natura possiamo evincerlo anche da un passo riassuntivo di Merleau-Ponty (p.68) riguardo uno dei massimi esponenti della speculazione romantica sulla natura: "La filosofia di Schelling cerca di restituire una sorta di indivisione tra noi e la Natura considerata come organismo, indivisione condizionata dall'indivisione soggetto-oggetto. Ma essa ammette che tale indivisione viene inevitabilmente spezzata dalla riflessione, e che si tratta di "ristabilire" tale unità". Questo mi pare richiamare da vicino uno dei temi di fondo della New Age, che Lacroix chiama "olismo" (cfr. pp.35-6). Sul romanticismo spontaneistico e sentimentale di derivazione rousseauiana da segnalare alcune acute considerazioni di Mill, pp.38-9.

[53] Su questo vedi soprattutto il libro di Rollin; a p.64 per esempio riporta l'opinione di Paul Ramsey, che parla di una "boundless freedom" che queste tecniche conferirebbero all'umanità. Cfr. anche Scarpelli pp.10-1, e Capron et al., p.93: "Non a caso, un noto libro di T. Howard e J. Rifkin sullo splicing genico si intitola Who Should Play God? e nella loro lettera del giugno 1980 al Presidente degli Stati Uniti i segretari generali della United States Catholic Conference, del Synagogue Council of America del National Council of Churches si sono detti allarmati della mancanza di una linea di azione politica nei confronti di coloro che, praticando l'ingegneria genetica, «vorrebbero fare la parte di Dio»".

[54] Continui sono i richiami a questo fatto nell'opera di Darwin (si veda in particolare il primo capitolo); cfr. anche Capron et al., p.93 e Rollin, pp.39-40. Del resto, già Plinio si dichiarava in generale contro le tecniche di manipolazione della natura (Lenoble, pp.217-25), ed in particolare contro la pratica dell'innesto (p.221).

[55] In Capron et al. (p.93) viene sollevato un particolare problema: "se particolari incroci di specie — soprattutto la commistione di geni umani e non umani — possano essere illeciti. La repulsione morale nei confronti della creazione di ibridi umano-animali potrebbe essere fatta risalire, almeno in parte, alla proibizione di rapporti sessuali tra umani e animali inferiori [immagino intenda tutti gli animali]. è infatti opinione diffusa che per gli esseri umani i rapporti sessuali con animali inferiori siano degradanti, in quanto offenderebbero la dignità attribuita loro da Dio quando ne ha fatto la più alta tra le sue creature. Ma il disagio che ci crea la prospettiva della creazione di ibridi umano-animali va oltre le proibizioni sessuali. La possibilità di creare tali ibridi solleva dubbi su principi fondamentali relativi ai rapporti fra gli esseri umani e le altre realtà viventi (...)". Si veda anche Rollin p.23 (p.36 sul perché l'invariabilità di specie sia ritenuta sostanzialmente sacra).

Da parte mia, penso sia logico attendersi una forte resistenza al cambiamento — per quanto non necessariamente immotivata in particolari istanze — da parte di quelle morali strutturate per prescrizioni relative a casi specifici. Di fronte al mutamento delle coordinate fondamentali di riferimento questi sistemi etici normativi rimangono spiazzati, mentre adattabilità sostanzialmente maggiore dovrebbero mostrare quelli fondati su criteri ad alto livello di astrazione (ad esempio, l'utilitarismo). Da qui, a mio parere, una maggiore tendenza alla conservazione delle regole — con relativo appello alla Natura — da parte del primo tipo di morali; questo in fondo avvenne per altri sconvolgimenti di portata anche esistenziale, quali la rivoluzione copernicana, il darwinismo, la psicanalisi. Le morali costruite su precetti specifici sono insomma intrinsecamente fragili rispetto al mutamento ambientale; a mio parere anche in campo morale è meglio, per riprendere una nota immagine, dare la canna da pesca che non il pesce.

[56] Penso questa posizione equilibrata sia la più diffusa tra chi pure avversa l'aprioristica ostilità alla scienza. Un ottimo esempio in questo senso è costituito dal libro di Rollin.

[57] è bene a questo proposito introdurre distinzioni tra un controllo di tipo morale su aspetti particolari, diretto ad esempio ad evitare sofferenze (tipico caso quello della vivisezione); e il timore dell'emancipazione in sé dalla Natura, che penso faccia spesso capolino da molte posizioni restrizionistiche. Scrive Biasini, in un articolo uscito sull'onda delle polemiche seguito alla creazione per clonazione della simpatica pecora Dolly: "aver paura di sapere e di conoscere è, purtroppo, un atteggiamento tipico della natura umana. La conoscenza può aumentare l'insicurezza di chi vede distrutte radicate credenze e si affida a teorie o fondamentalismi che inducono a credere piuttosto che a pensare". Faceva già osservare Hume: "Non c'è maniera di ragionare più comune, né tuttavia più biasimevole, del cercare, nelle dispute filosofiche, di confutare qualche ipotesi, colla pretesa delle sue conseguenze pericolose per la religione e per la morale. Quando qualche opinione conduce ad assurdità, è certamente falsa; ma non è certo che un'opinione sia falsa, perché genera conseguenze pericolose" (Op.fil. p.102). Non ha perso attualità, dopo due secoli, l'appello kantiano Sapere aude!

[58] Giustamente Berlinguer prende le distanze da quella che chiama bioetica giustificativa (che, mi pare, sarebbe afflitta dall'errore naturalistico — cfr. nota 48), definita (p.63) "la tendenza a ritenere che tutto ciò che è tecnicamente possibile può essere fatto, è giusto che sia fatto, è da considerare giuridicamente legittimo; e perciò è illiberale impedirlo" — anche se non mi sento di condividerne appieno il giudizio sull'applicazione concreta di tale valutazione ad alcune situazioni (cfr. nota 67). Si noti comunque che da un punto di vista concettuale non siamo di fronte ad una peculiarità causata dall'avanzamento della tecnologia. Scrive infatti Mori 1993 (p.20): "...sembra che gli studiosi del Centro di Bioetica dell'Università Cattolica affermino che il problema della «frontiera etica» sia centrale in bioetica perché «Non tutto quel che è tecnicamente possibile fare è per ciò stesso eticamente lecito». Ma se è così, allora ci si deve chiedere come mai tale ragione diventi rilevante [ai fini dell'individuazione di una sfera propria della bioetica] soltanto nel caso dell'avanzamento tecnico-scientifico e non nel caso di altre azioni come la rapina, lo stupro, la maldicenza eccetera".

[59] Su questo vedi anche Mill, p.25 e segg., e Freud e Pfister pp.80, 99-100 e 180.

[60] Lenoble osserva che "Immediatamente egli [l'uomo primitivo] si forma le sue idee intorno alla Natura; sceglie i mezzi di azione, e queste idee e questi mezzi appartengono alla magia. Molto più dell'ignoranza, che risulterebbe permeabile a contatto della realtà, questa idea di Natura ricca di contenuto affettivo sarà, in ogni tempo e anche ai nostri tempi, la grande fornitrice degli «ostacoli epistemologici» che si opporranno alle scoperte oggettive" (pp.47-8). Già Boyle aveva acutamente ravvisato un sostrato animistico nel rilievo conferito alla natura: si veda la sez.IVª (IIIª nella numerazione delle edizioni precedenti a quella da me utilizzata).

[61] è possibile che Monod debba molto a Lenoble dal punto di vista dell'interpretazione della storia delle idee, in particolare l'avere focalizzato l'attenzione sulla sopravvivenza delle forme di pensiero magico attraverso le epoche (nel merito ho invece l'impressione che il materialismo radicale di Monod avrebbe scandalizzato Lenoble). In particolare posso ravvisare strette analogie sull'analisi della negazione magica; Lenoble, rifacendosi a sua volta ad Aubin, scrive: "...l'animismo è nello stesso tempo una proiezione dello psichismo sulle cose e una negazione spesso ansiosa contro la loro alterità minacciosa" (p.57). Una pietra miliare per questo tipo di posizioni è certo L'avvenire di un'illusione: "... l'impotenza dell'uomo perdura e, con essa, perdurano il suo ardente desiderio di un padre e gli dèi. Gli dèi serbano il loro triplice compito: esorcizzare i terrori della natura, riconciliarci con la crudeltà del fato, specialmente quale si manifesta nella morte, risarcirci per le sofferenze e per le privazioni imposte dalla civile convivenza." (Freud e Pfister, p.56 — vedi anche p.55). E poi: "Credo piuttosto che, anche quando personifica le forze della natura, l'uomo si conformi a un modello infantile. Basandosi sulle persone del suo primo ambiente, ha appreso che c'è un unico modo di influire su di esse, ed è di stabilire con loro un rapporto" (p.61). Sul legame tra religione e paura della morte (o, specularmente, il desiderio di sopravvivere a se stessi) — un tema già caro ad Epicuro (si tratta infatti di una tesi antichissima, cfr. anche Timpanaro p.XXXVIII)— si veda anche Holbach p.45.

[62] Su questo registro anche Brun, che crolla proprio in dirittura d'arrivo (pp.102-3, le ultime) come il maratoneta Dorando Pietri alle Olimpiadi del 1908. Anche Lenoble negli ultimi capitoli imputa — a mio modo di vedere del tutto semplicisticamente (va però detto che la sua opera, specie nell'ultima parte, è incompiuta) — gli orrori del totalitarismo contemporaneo al materialismo, che avrebbe costruito una "società di robots" (p.414).

[63] Pascal scrive nel lungo Pensiero 72 (ne riporto solo un passo): "L'autore di queste meraviglie le comprende. Nessun altro lo può. (...) gli uomini si sono volti temerariamente all'indagine della natura, come se avessero qualche proporzione con essa. è strano che abbiano voluto scoprire i princìpi delle cose, con una presunzione infinita come il loro oggetto". Molto più secco è il Pensiero 76, che suona: "Scrivere contro quelli che approfondiscono troppo le scienze. Descartes.".

[64] Mentre lo scienziato pazzo che vuole conquistare, o distruggere, il mondo (non prima di essersi dilettato all'organo a canne) è un topos di molta filmografia scadente o parodistica; se l'idea è quella dell'apprendista stregone (testualmente, Lenoble p.420), più simpatico allora il Topolino di Fantasia.

[65] Vedi anche l'articolo di Dominici Il rischio dei virus venuti dal freddo ricorda troppo i miti della punizione: "C'è il rischio che lo scioglimento dei ghiacci polari, indotto dal riscaldamento del clima, riporti in vita micidiali virus rimasti intrappolati nel ghiaccio in epoche preistoriche. L'allarme è stato lanciato nei giorni scorsi a Bonn da John Castello (…) fino ad oggi, questo genere di ritorni basati sulla possibilità che un orgnismo vivente (come un virus, appunto) abbia mantenuto inalterato nel tempo il suo Dna così da poter tornare in vita, si sono sempre dimostrati un abbaglio (sono oltre 5.000 i casi di resurrezioni mancate). (…) Una curiosità. Lo scenario prospettato da John Castello e colleghi ricalca esattamente la struttura più profonda del mito: il mostro se ne sta silente nella profondità della terra e del tempo, ma le colpe degli uomini (riscaldamento del pianeta) lo risvegliano, e la bestia distruttrice si scatena per punire l'umanità degenere. Singolare come l'ansia e il senso di colpa degli uomini si manifestino sempre con lo stesso schema."

[66] L'analisi suggestiva di Lenoble si svolge spesso su un piano di analisi psico-affettiva (siamo del resto negli anni Cinquanta) del rapporto con la natura. A p.271 (ma cfr. anche altrove, ad es. p.353) scrive: "L'uomo si adagia prima sulla Natura come sui suoi genitori, da cui nasce l'espressione persistente della Natura mater, e possiamo capire quale capovolgimento l'uomo dovrà operare per mettersi davanti alla Natura come «padrone e possessore». Perdita temibile di un appoggio di cui aveva avuto sempre bisogno, questa nuova libertà rischierà di suscitare in lui un sentimento di colpevolezza che sarà infatti il segno nascosto ma profondo del XVIII sec.". Va detto che altrove questo tipo di analisi viene forzato forse sino al ridicolo (a proposito di Diderot e Rousseau, cfr. pp.396-7). Sulla valenza psichica della religione quale via per risolvere i complessi di colpa di origine parentale si veda il passo di Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci citato nella Prefazione a Freud e Pfister, p.11.

[67] Un'illuminante disamina dei dogmi morali dell'"environmental philosophy" in Rollin, pp.47-63. Uno dei temi centrali dell'analisi che Lenoble compie del pensiero moderno è il "trasferimento da Dio alla natura del problema umano della salvezza" (cfr. ad es. p.336).

In particolare sui nuovi orizzonti di potenza dischiusi dalle scoperte degli ultimi secoli, Lenoble annota (p.373): "La Natura meccanizzata diventa una semplice possibilità di impiego tecnico, presto portato al massimo rendimento dall'industria prima nascente e poi invadente. L'uomo ha trasformato il suo modello, la sua padrona, in un attrezzo. Quest'attrezzo gli è stato consegnato senza un'istruzione che ne spieghi l'uso. L'uomo, in un primo momento quasi divertito, non tarderà a spaventarsi della sua potenza e del vuoto che, in tal modo, ha creato intorno a sé". Si veda anche Esposito: "non pare proprio che la colpa sia diventata un semplice ricordo di un mondo ormai tramontato. Che sia scomparsa del tutto dall'orizzonte dell'uomo contemporaneo. Si direbbe, anzi, che ad un assottigliarsi del senso di colpevolezza nei confronti di Dio, corrisponda un proporzionale aumento di un sentimento di colpevolezza diffusa: nei confronti degli altri, del mondo animale, di quello naturale e infine di noi stessi. (...) Da dove proviene tale sensazione che assume il volto di una nuova fatalità da cui pare impossibile difendersi? A prima vista si direbbe che essa nasca dal dislivello tra la crescente estensione delle nostre possibilità tecniche e l'uso limitato o addirittura distruttivo che ne facciamo" (pp.37-8). Flores d'Arcais scrive a sua volta della "sciagura che è per ciascuno lo scarto tra l'umana in-potenza in quanto dei singoli, e la crescente dismisura di potenza in quanto della specie, e il senso di colpa che ce ne viene" ({a}, p.24). C'è un evidente influsso teologico (il peccato originale) su tale senso di colpa — un influsso che mi pare rilevabile anche altrove, ad esempio in certo terzomondismo (cfr. ancora Furcht 1993, vedi nota 111).

[68] Cfr. ad esempio Scarpelli pp.5-6, Agazzi p.31, Mori 1993 p.20 e tutto l'intervento di Rossi, che scrive (p.13): "La gamma degli atteggiamenti è vastissima: recise condanne, proclamazioni della superiorità della filosofia su ogni altra forma di sapere possibile, dichiarazioni sul fallimento della scienza e della sua bancarotta, teorizzazioni della inferiorità della scienza di fronte alla cultura letteraria ed umanistica, rivendicazioni della soggettività come luogo di salvazione, fosche profezie sulla fine della civiltà e sull'inevitabile olocausto provocato dalla scienza, requisitorie contro la civiltà industriale ed urbana, rifiuti globali della modernità, rimpianti per il Medioevo come «epoca organica» e «comunitaria», esaltazioni delle civiltà agricole e pastorali, nostalgie primitivistiche con relative riproposizioni del tema del «buon selvaggio», esaltazioni del mondo magico e del sapere alchemico e occulto come superiori a quello dell'intelletto, elogi della follia come porta di ingresso ad un mondo altro e superiore a quello delle astrazioni dell'intelletto". Dopo aver individuato questi leit-motiv dell'antiscientismo continua (p.14): "A questi cinque temi se ne può aggiungere un sesto [il principale, a mio modo di vedere]: quello che condanna la scienza come impresa empia e luciferina, come sete di dominio, violazione della natura innocente, diretta responsabile dello sfruttamento sociale e del dominio dell'uomo sull'uomo".

[69] Chi ha studiato latino ricorderà le molte noiose versioni dedicate alla declamazione delle perdute virtù delle generazioni passate.

[70] Per la peste nera si calcolano perdite demografiche tra un terzo e metà su scala europea, e anche dell'80% su scala regionale (cfr. Ruffié e Sournia p.91 e Livi Bacci 1998, pp.112-3). Anche per la guerra dei Trent'anni si calcola una mortalità regionale fino all'80%, cfr. Reinhard, Armengaud e Dupaquier pp.220-8 e Livi Bacci 1998, p.119.

[71] "Un poco di modestia e molta sobrietà, insomma. Quella modestia che la nostra specie avrebbe dovuto far propria da tempo, e cioè da quando la scienza ha tolto gli uomini dal centro dell'Universo e dal centro del mondo vivente. Dobbiamo imparare a vivere nella natura di un Galilei, di un Leopardi e di un Darwin, senza l'illusione che l'Universo sia la proiezione dei nostri sogni. Come scriveva Galilei, infatti, la natura si burla dei decreti del principe ed è indifferente ai nostri desideri" (Bellone, p.19). Quindi "la scienza può aiutarci a superare il vile timore in cui l'umanità ha vissuto per generazioni e generazioni. La scienza, così come lo può il nostro cuore, può insegnarci a smettere di cercare un sostegno ideale, a non inventarsi più alleati celesti, ma piuttosto a far sì che i nostri sforzi qui, su questa terra, siano tali da farne un luogo ove sia possibile vivere (...)" (Russell p.64, Perché non sono cristiano). Del resto questa era già l'idea di fondo di Epicuro, liberare l'umanità dal terrore attraverso la conoscenza (cfr. Lenoble pp.302-7). Lucrezio scriveva (l.IIIº, vv. 87-93 — ma vedi anche l.Iº, vv.62-79): "Simili ai bambini che tremano e si spaventano nelle tenebre cieche, noi in piena luce spesso ci spaventiamo di pericoli non più terribili di quelli che la loro immaginazione teme e crede di vedere avvicinarsi nella notte. Questi terrori, queste tenebre dello spirito, le devono dissipare non i raggi del sole, non i dardi luminosi del giorno, ma lo studio della natura e la sua comprensione" (p.161). Freud conclude con queste parole il suo magistrale L'avvenire di un'illusione: "No, la nostra scienza non è un'illusione. Sarebbe invece un'illusione credere di poter ottenere da altre fonti ciò che essa non è in grado di darci."

[72] Riecheggia qui un passaggio della Iª sezione della Ricerca sull'intelletto umano: "Date ascolto alla vostra passione per la scienza [intende però filosofia], dice la natura [la ritroviamo], ma cercate che la vostra scienza sia umana e tale che possa avere un legame diretto con l'azione e colla società. Io proibisco il pensiero profondo e le ricerche involute e li punirò severamente colla pensosa malinconia che introducono nell'animo, coll'incertezza senza fine in cui vi avviluppano e colla fredda accoglienza cui andranno incontro le vostre pretese scoperte, quando saranno rese note." (Hume, Op.fil., p.7). Questo per quanto riguarda il metodo. Nel merito Russell aggiunge però, nel solco della tradizione epicurea (p.242, Il valore del libero pensiero): "L'universo del libero pensatore potrà apparire freddo e squallido a coloro che sono abituati al tepore della cosmologia cristiana. Ma per coloro che invece vi si sono abituati, questo universo è altrettanto sublime, e dona altrettanta gioia. Imparando a pensare liberamente, avremo appreso a scacciare la paura dai nostri pensieri, e una lezione del genere, una volta appresa, dona una pace che lo schiavo dell'ingenuità e dell'incertezza non avrà mai".



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