Andrea Furcht

Alcune relazioni tra crisi economica e immigrazione dai paesi in via di sviluppo

Parte 4 di 6


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3 Conclusioni

La ciclicità insita nell'andamento dell'economia "di mercato" (per gli estimatori, "capitalistica" per i detrattori) comporta il periodico comparire di crisi più o meno destabilizzanti, che si riverberano anche nella sfera sociale e politica. Come nell'immagine del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, i pessimisti potranno rilevare in questo l'ineluttabilità delle crisi; gli ottimisti, l'ineluttabilità del loro superamento.

Il fatto che le crisi non siano permanenti, per quante cicatrici possano lasciare, ci pone di fronte al problema di che fare dell'analisi condotta in queste pagine quando si passi ad una fase di espansione. Molte delle considerazioni fin qui svolte possono venire rovesciate quando il ciclo diventerà positivo; ritengo però errato applicarle automaticamente per motum contrarium. Nel campo delle scienze sociali molti meccanismi non sono che assai parzialmente reversibili: ad esempio quando una carenza di forza-lavoro (non necessariamente di origine demografica) porta ad una ristrutturazione di tipo intensivo in capitale, l'investimento è poi ormai fatto e per un certo periodo, anche lungo, può non essere conveniente smobilizzarlo; questo vale a maggior ragione se una carenza di lavoro forza sviluppi tecnologici, che possono oltretutto mutare il livello qualitativo preteso dal consumatore. Non è detto, insomma, che vi sia simmetria nei meccanismi economici[1].

Possiamo aspettarci che la situazione si faccia decisamente più rosea quando ogni ombra di congiuntura sfavorevole sarà passata (ammesso che ciò succeda). Niente garantisce però che anche allora tutto debba volgere per il meglio. Se per esempio l'elasticità dell'immigrazione produttiva alla domanda di lavoro fosse troppo elevata, un incremento delle possibilità di occupazione porterebbe ad un eccesso di afflusso a sua volta foriero di problemi[2].

I motivi di pessimismo maggiori sono però altri, riassumibili in sostanza in due gruppi. Il primo è strutturale, ed affonda le sue radici nella combinazione tra degrado socio-economico ed esplosiva crescita demografica che caratterizza gran parte dell'umanità. A questo possono aggiungersi le preoccupazioni derivanti dalle tensioni geopolitiche internazionali, frutto appunto degli squilibri strutturali ma anche delle differenze culturali e - in modo più immediato - della rottura dell'equilibrio bipolare postbellico.

Non è poi detto che i PSA, e in particolare quelli europei (a maggior ragione l'Italia) debbano restare per sempre tra le società più ricche; un implicito presupposto degli interventi sull'immigrazione sembra invece essere quello che i paesi più ricchi possano perpetuamente venire considerati alla stregua di galline dalle uova d'oro. Vi è invece un'altra ipotesi, impostasi all'opinione pubblica con l'intervento di Dahrendorf: i paesi europei sono stati superati sul proprio terreno, quello dell'efficienza e della produzione, dalla concorrenza dell'Estremo Oriente. Davanti ad essi potrebbe aprirsi la prospettiva del declino, o perlomeno quella - non meno inquietante - del divaricarsi delle sperequazioni sociali. La strada forse obbligata della flessibilità può significare restringere la domanda sul mercato del lavoro, e sicuramente ridiscuterne la filosofia. è pertanto difficile immaginare un futuro brillante per le nostre economie se non a prezzi molto alti sul piano sociale, prezzi che forse non varrà la pena di pagare. Questo, a meno di una grande lungimiranza, sia politica che economica, che le classi dirigenti non sempre dimostrano (già non si danno per scontate onestà ed efficienza).

In un clima sociale avvelenato, e soprattutto in presenza di diffuse carenze nella gestione della cosa pubblica, la questione etnica diviene una variabile di difficile gestione, specie se alla divisione per origine dovesse sovrapporsi quella per reddito. In più, questo tema pare essere particolarmente adatto alla catalizzazione del malcontento popolare su posizioni di conservatorismo aggressivo (o peggio). Per un paese che non è riuscito a garantire uno sviluppo neanche latamente equilibrato tra le proprie grandi aree - pur avendo traversato periodi di grande espansione economica - questa potrebbe rivelarsi una sfida proibitiva.

Non dobbiamo d'altronde perdere di vista le potenzialità positive che un'immigrazione ben governata può implicare per il paese di arrivo, anche limitandosi agli aspetti meramente economici - al di fuori perciò del terreno più sdrucciolevole dello scambio culturale (argomento che presta purtroppo il fianco ad una certa retorica). Una politica dell'immigrazione responsabile può essere mirata, ad esempio, alla creazione di una classe media (e, perché no, anche agiata) di immigrati - piuttosto che alla proliferazione di un sottobosco di marginalità sociale ed economica (che è tra i rischi dell'assistenzialismo, specie in un paese con una spiccata vocazione all'irregolarità).

Tra gli opposti atteggiamenti della cecità (spesso ideologicamente motivata) di fronte ai pericoli di un immigrazione malgestita, e quello di chi vorrebbe gettare via il bambino con l'acqua sporca, vi è anche la via mediana dell'individuazione dei possibili inconvenienti - seguita dalla attuazione delle politiche più razionali per eliminarli se possibile, od almeno ridurli. Così facendo potrebbe non essere irrealizzabile, anche in questo ambito, l'ambizione di quadrare il cerchio.



[1] Si pensi ad esempio ai punti di equilibrio instabile in una prospettiva di analisi dinamica; o anche, il problema della non-instantaneità dei processi di aggiustamento, che implica la questione di sapore storicista della memoria del sistema.

[2] Un caso questo di classica applicazione dell'impostazione di Todaro.



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