Andrea Furcht

Razzismo e statistica: osservazioni sul pregiudizio

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1 - Introduzione

Il pregiudizio – e a maggior ragione la sua incarnazione più eclatante, il razzismo – è fenomeno che si presta ad una trattazione in chiave valoriale, quando non apertamente ideologica: il dibattito italiano testimonia quanta passione si sia riversata su questo punto. Penso che questo approccio sia giustificabile e probabilmente anche provvidenziale, dato che si toccano questioni di principio assai profonde, anche se è palese la necessità di tenere separata l'analisi dall'impegno civile.

Si proverà qui fare una cosa diversa, e cioè smontare il meccanismo del pensiero preconcetto nelle operazioni mentali che ne sono le implicite componenti: indicare la consecutio logica in esso insita e farne venire alla luce alcuni presupposti potrà mostrare dove se ne annidano i molti punti deboli (e anche qualche comodità). Agli intendimenti analitici si affianca così lo sforzo illuministico di razionalizzare il razzista[1].

Si intenderà il termine "pregiudizio" in senso letterale, e non come disposizione d'animo generalizzata verso categorie[2]. Ci si riferisce quindi all'attribuzione di caratteristiche ad individui sulla base di un procedimento a priori, a seconda della loro appartenenza a determinati gruppi. Così facendo non si ricorre al giudizio caso per caso, che – per quanto non infallibile – è senz'altro più corretto, in quanto utilizza informazioni specifiche; ma procedere individualmente è anche più costoso[3]: tale circostanza, ben nota in psicologia[4], è il fondamento pratico del campionamento e della statistica inferenziale.

Il ricorso alla letteratura psicologica e sociologica sull'argomento sarà anche in forma di (talvolta impliciti) metariferimenti, in quanto si sono utilizzati alcuni testi di carattere generale, che rimandano sovente ad altri autori. La scelta di fondo è però quella di interpretare il pregiudizio con strumenti presi a prestito dalla metodologia statistica in senso lato. Quest'approccio è complementare all'indagine delle motivazioni profonde del pregiudizio: non si intende insomma indagare la causa effettiva di comportamenti ed atteggiamenti[5], ma si ricostruisce la procedura logica ad essi equivalente. è per questo che l'ottica di analisi delle scelte in condizioni di incertezza sarà quella della teoria normativa, più che di quella descrittiva, delle decisioni.

La trasferibilità di questi metodi al nostro caso non è scontata e può richiedere un po' di adattabilità; in particolare si pensi all'uso di concetti di statistica descrittiva (quali media e dispersione) che si farà a proposito di qualità anche morali dei gruppi. Questo problema è simile a quello che sorge nel valutare la filosofia utilitarista con riguardo al calcolo della felicità. Anche lì vi è un processo mentale che guida le azioni quotidiane, e che deve poter essere quantificabile: le difficoltà nel calcolo effettivo non implicano che questo non debba essere possibile in linea di massima[6]. Del resto è prassi misurare il pregiudizio (significativo al proposito il contributo di Linville, Salovey e Fischer, vedi ad esempio p.202).

Ecco le fasi logiche sulle quali si soffermerà la nostra attenzione[7]:

a)      l'individuazione di gruppi distinti;

b)      l'individuazione della proprietà[8];

c)      l'attribuzione della proprietà al gruppo in ragione di una certa media collettiva;

d)      l'ascrizione al singolo della caratteristica ritenuta presente nel gruppo.

Inoltre si dedicherà un approfondimento anche ad altri aspetti, quali il reperimento dei dati (cfr. c), l'interpretazione in termini di analisi causale, l'utilizzo di informazioni aggiuntive e il rapporto con la teoria delle decisioni.



[1] Convinto dell'utilità di tale operazione Lippmann ("Lippmann felt that an effective antidote to stereotyping would consist in the simple recognition of its operation", citato in Miller (a), p.6) e lo stesso Miller (Miller (b), p.500); di fatto si ravvisa nell'inconsapevolezza di applicazione uno degli aspetti più insidiosi del giudizio stereotipato – vedi anche Miller (a), p.23, Jones, p.56 e Miller (b), p. 489. Più in generale, Colasanti afferma che "la posizione del pregiudizio come 'errore estirpabile' [È] tipica della sociologia americana". In questo senso possiamo ricordare, tra gli autori qui utilizzati, sia Allport (vedi la parte VIII) che Montagu (capp.VIII-XVI-XVII) che però scrive, a p.351: "Il pregiudizio è una passione con una logica tutta sua. Non serve a molto tentare di correggere questa logica mostrandone la falsità, poiché non è la logica, che è causa del pregiudizio, ma è il pregiudizio che è causa della falsa logica".

[2] Secondo il classico testo di Allport (p.13), invece, "il pregiudizio etnico [negativo] è un'antipatia basata su una generalizzazione irreversibile e in mala fede. Può essere solo intimamente avvertita o anche dichiarata. Essa può essere diretta a tutto un gruppo come tale, oppure a un individuo in quanto membro di tale gruppo". In questo senso cfr. anche Dovidio e Gaertner (a) pp.2 e 14, e Simpson e Yinger, p.21.

[3] Questo è un aspetto sottolineato ampiamente nella letteratura. Si vedano ad esempio Hamilton e Trolier, p.128, Miller (a), pp.5,6, Jones, p.70 e Simpson e Yinger, p.100. Fishman, trattando degli stereotipi come "inferior judgemental processes", cita Newcombe e Charters, ed è a sua volta citato in Miller (a), p.20 (chi la fa l'aspetti): "They are not only convenient and time-saving, but without them it would be necessary for us to interpret each new situation as if we had never met anything of the kind before (...) Stereotypes have the virtue of efficiency but not of accuracy". In Miller (a), p.31 leggiamo: "In terms of strictly psychological processes [altrimenti la valutazione può essere assai diversa], there is nothing evil, immoral or inferior about stereotyping. Its central operating characteristics – categorization, inference, anticipatory thinking, and planning – are obviously adaptive, functional, and 'good' (if that term is of any value)". Cfr. anche Linville, Salovey e Fischer, p.202.

[4] Allport parla diffusamente di un "principio di minimo sforzo" (pp.241-2, con accenni a pp.28-9), Lippmann di "economy of thought" (Miller (a), p.20).

[5] Benché si speri che criticare razionalmente il giudizio stereotipato possa servire a cambiare l'atteggiamento sottostante, non si prende posizione sul quesito un po' avicolo se vengano prima le disposizioni d'animo o i giudizi; si vedano al proposito Dovidio e Gaertner (a), p.17 e Hamilton e Trolier, pp.127-8

[6] Musacchio scrive, nel paragrafo Le difficoltà del calcolo 'felicifico' (p.37): "La possibilità di calcolare, almeno in teoria, la quantità del piacere o meglio le quantità del piacere deve essere ammessa dall'edonista universale per almeno due ragioni. Innanzitutto per ragioni di buon senso, dato che sarebbe assurdo sostenere che si deve agire in conformità ai risultati di un calcolo delle conseguenze tale che in effetti non può essere effettuato nemmeno in teoria. E in secondo luogo (...) la sua teoria ha una dimensione realistica che sarebbe dal tradita riconoscimento della impossibilità del calcolo della felicità. Che tale calcolo sia non solo possibile (che, per esempio, si possa giudicare se il piacere datomi da un mese di vacanze al mare è più o meno grande del piacere ottenuto ascoltando un concerto di Mozart) ma che in effetti sia messo in pratica ogni giorno è stato bensì fatto osservare". Cfr. anche pp.83-8.

[7] Alcuni di questi passaggi sono individuati da Secord e Backman, in Miller (a), p.30.

[8] Prendiamo in considerazione, per semplicità, il caso di una sola proprietà; si veda comunque la nota 27.

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