Andrea Furcht

Alcuni contributi della demografia alla ricerca biologica ed alla riflessione etica

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Alla memoria di Giuseppe Paolo Samonà

Non penso si possa venire tacciati di sciovinismo settoriale se si afferma che l'oggetto della demografia è uno dei più interdisciplinari tra quelli delle scienze sociali. Questo però non è merito (se vogliamo considerarlo tale) dei demografi, bensì dell'argomento "popolazione" in sé, che si situa appunto al crocevia tra diversi ambiti[2]: vi si intersecano biologia, antropologia, storia, sociologia ed economia (per tacere della statistica, della quale la demografia nell'opinione di molti non rappresenterebbe molto più che una branca). Non sembra, infatti, che queste contiguità raccolgano grande interesse[3] — mi riferisco in particolare a quella con la biologia[4].

Il cuore degli studi demografici è oggi infatti orientato verso l'aspetto statistico e modellistico ("a point of proper disciplinary pride" secondo l'espressione di McNicoll, citato in de Bruijn, p.1)[5] — comprensibilmente, d'altronde, visto l'interesse degli sviluppi e delle applicazioni dell'impianto della popolazione stabile e di altri raffinati metodi di analisi, amplificati della potenza che l'uso dei computer conferisce loro. Troverei però illogico sprecare questo potenziale di eclettismo[6], pur con tutti i rischi del caso[7]: sono proprio le conquiste delle singole discipline, che rendono più attraente la specializzazione, a dare urgenza anche a uno sforzo di raccordo. Senza una riflessione generale, rischiamo di rompere la conoscenza scientifica in un insieme di cocci[8], per quanto luccicanti — e questo può portare guai ben più a lungo che per sette anni.

Cominceremo dunque col passare in rassegna alcuni punti ove la demografia più aiuta a comprendere il nesso tra esistenza umana e sostrato biologico[9]. Una discussione così generale su metodi ed interpretazioni darà poi lo spunto per alcune eterogenee considerazioni di ordine filosofico, presentate nella seconda parte.

1 Biologia

Procedendo dal particolare al generale, il primo compito della demografia — coerente d'altronde con l'impostazione statistica che essa è venuta ad assumere — è quello della raccolta dei dati.

Il monitoraggio delle tendenze presenti si accompagna poi alla ricostruzione di quelle passate ed alla previsione di quelle future. Questa funzione ancillare può rivelarsi preziosa per altre scienze sociali, sempre si riesca a comunicare attraverso le frontiere che dividono i campi del sapere, e può implicare una grande raffinatezza tecnica.

Vi è infine il momento interpretativo, che non può essere appannaggio esclusivo della demografia, così come di qualsiasi altra impostazione (È una questione di buon senso che una molteplicità di punti di vista possa dare frutti più copiosi).

In ambedue i pilastri della disciplina, l'analisi della mortalità e quella della fecondità (a sua volta collegata a fertilità[10] e nuzialità), vi è un evidente collegamento con i due motori principali della selezione: la sopravvivenza e la riproduzione. Le esigenze di esposizione inducono ad esaminare un punto alla volta, ma non va dimenticato che uno dei contributi fondamentali della demografia è appunto lo studio delle interrelazioni tra fenomeni diversi.

1.1 Il metodo

Vi è un ovvio uso della statistica nella genetica di popolazione, che può anzi considerarsi un'applicazione particolare del calcolo delle probabilità, basato sulle frequenze geniche e sulle leggi biologiche. E da questo punto di vista vi sarebbe già una certa parentela di metodo con una parte importante dell'analisi demografica, pur con importanti differenze[11].

Possiamo anzi affermare con Scardovi (1994, p.202): "Demografia e biologia trovano la più immediata intersezione nella parte in cui la genetica di popolazioni si rivolge alle popolazioni umane: l'una è attenta agli individui, l'altra ai geni di cui sono portatori. L'intreccio fenomenologico è dunque in re ipsa: non c'È evento osservato in demografia che non abbia un'origine o una ripercussione biologica"[12] (si vedano anche Lucchetti e Soliani, p.159, e Cliquet pp.183 e 207-8). Barrai (p.41) aggiunge che "esiste un'ampia sovrapposizione di metodi e di oggetti di studio tra le due discipline [demografia e genetica], che è assai vasta nel caso della genetica di popolazioni umane. In pratica, alcuni dei problemi più importanti della genetica di popolazioni umane possono essere risolti solo con metodi demografici, e con l'aiuto della demografia. In particolare, la sovrapposizione delle generazioni, la tavola attuariale, lo studio della mortalità e della fertilità, la crescita delle popolazioni, la migrazione e la distribuzione dei gruppi sono argomenti di studio comune".

Vi sono però punti di contatto più specifici con la teoria dell'evoluzione; il concetto-base di fitness darwiniana, definito in Bodmer e Cavalli-Sforza come numero medio di figli (II, p.53), è infatti di evidente natura demografica: una sorta di tasso netto di riproduzione senza distinguere i figli per sesso[13] — tenendo conto che la base di riferimento ideale non è una coorte di individui, ma un genotipo relativo ad un determinato locus. L'idoneità è così funzione tanto della fecondità quanto della sopravvivenza differenziali; da questo possiamo poi derivare il coefficiente di selezione e modelli dinamici di mutazione delle frequenze geniche nella popolazione[14].

Concentriamoci ora su una delle questioni centrali della sociobiologia: l'interpretazione in chiave evoluzionistica (la logica è di selezione individuale, non di gruppo) dell'altruismo[15]. Icastica al proposito l'affermazione di Haldane, cui si chiese una volta se avrebbe dato la vita per un fratello: "Per un solo fratello no, ma per due sì, oppure per otto cugini"[16]. L'interpretazione sociobiologica si basa in prima istanza su un'estensione del concetto di fitness darwiniana come era stato definito in precedenza: "L'idoneità complessiva si misura dalla quota di geni che un organismo trasmette alle generazioni discendenti come risultato della sua stessa riproduzione e di quella dei collaterali consanguinei, in quanto portatori d'una parte dei suoi medesimi geni" (Gallino p.XI, che cita Hamilton).

Un approfondimento illustra un possibile contributo dei metodi demografici: avrebbero i nostri generosi (quanto avveduti) eroi sacrificato la propria vita per salvare quella di otto bisnonni? Per rispondere dobbiamo dinamizzare l'analisi dell'altruismo anzitutto rispetto all'età, considerando la speranza di vita residua degli individui da salvare, e non solo il coefficiente di parentela biologica[17]. Un ulteriore raffinamento consiste nell'effettuare la ponderazione degli anni di vita residui con la fecondità per età ed anche nel prendere in considerazione — come usuale in demografia — la speranza di vita non fino alla morte, ma solo fino al termine dell'età feconda[18], particolarmente rilevante (finora) per le donne; tralasciando questioni non essenziali, quali l'assistenza alla propria prole già in essere (che verrebbe compromessa in caso di decesso del genitore), immaginiamo allora un rapporto benefici/costi:

                                                                          (2)

ove gli n individui i per i quali sacrificarsi condividono la porzione r (variabile in ognuno di essi) di geni con il soggetto — si tratta dunque del coefficiente di parentela biologica[19] — mentre le x indicano l'età al momento dell'osservazione[20]. Il numeratore rappresenta il ricavo dell'operazione, il denominatore il costo: se il rapporto sale sopra l'unità, la riproduzione del pool genico dell'individuo verrà aumentata con il sacrificio[21].

1.2 Fecondità, fertilità e nuzialità

La semplice raccolta di dati per la comprensione delle tendenze in atto è di estrema importanza in particolare in questo momento: l'Italia (in misura minore anche gli altri paesi economicamente avanzati) sta sperimentando la fecondità più bassa mai conosciuta nella storia per un gruppo umano di proporzioni rilevanti. Anche prescindendo dall'importanza congiunturale del fenomeno, rimane l'interesse scientifico dell'osservazione degli effetti (e dei presupposti) di una così accentuata denatalità — occasione particolarmente preziosa giacché la prova sperimentale non è in sostanza possibile nelle scienze sociali.

La raccolta di dati e l'applicazione di metodi demografici possono rivestire grande importanza anche per lo studio della fertilità[22] (soprattutto differenziale: ad esempio per età, ordine di nascita o durata dell'unione). Il contributo all'analisi biologica si ritiene solitamente maggiore, quanto più le popolazioni considerate sono lontane dal controllo delle nascite[23], come avviene negli studi antropologici o in quelli di demografia storica.

Risulterà almeno implicitamente dal seguito di queste pagine come la demografia possa portare un contributo sia sul piano della validazione/falsificazione che su quello della formulazione vera e propria di teorie. E certo l'approccio evoluzionistico può contribuire molto a capire le dinamiche alla base di nuzialità e fecondità. Hobcraft e Kiernan si soffermano su questo aspetto: citando anche Ridley, mettono in rilevo come la selezione naturale non potesse distinguere tra inclinazione alla sessualità e procreazione, inscindibili di fatto nelle specie animali. Nell'uomo si è realizzato in tempi recenti, in particolare con la diffusione dei metodi anticoncezionali, uno iato tra questi due aspetti[24]: da qui sono ipotizzabili tensioni verso le quali non siamo geneticamente attrezzati[25]. Leridon, d'altra parte, mette in rilievo la valenza selettiva del matrimonio: non si tratta solo del vantaggio dei più sani e/o attraenti in regime di libera scelta del coniuge, ma anche di altri meccanismi[26]; su questo si vedano anche Lucchetti e Soliani §3.1 e Cliquet pp.187-9 (vedi anche quanto riportato in n.46). La sezione 1.6 è dedicata alla questione della "fine della selezione naturale", collegata anche a questi argomenti.

Una questione più specifica è poi quella dei presupposti dell'analisi della fecondità di fronte ai cambiamenti tecnologici in campo riproduttivo. Già i demografi hanno dovuto rivedere le proprie assunzioni in merito alla cogenza del nesso nuzialità/fecondità (in alcuni paesi europei metà delle nascite avviene fuori dal matrimonio): l'analisi della nuzialità ha così perso parte della propria importanza, assurgendo però a maggiore dignità sul piano dell'interesse autonomo. Ora poi le tecniche di fecondazione artificiale minacciano non solo i tradizionali limiti di età feconda femminile a e b ed il rapporto k dei sessi alla nascita (cfr. nota 13)[27], ma persino la coincidenza tra discendenza sociale e biologica anche per quanto riguarda le donne. Mater semper certa, pater numquam rischia inopinatamente l'obsolescenza per eccesso di ottimismo.

Se è quest'ultima circostanza ad essere forse più preoccupante scientificamente (specie per quanto riguarda il nesso demografia/evoluzionismo), va ammesso tuttavia che c'è invece da sentirsi inquieti soprattutto di fronte alla prospettiva di una composizione per sesso delle generazioni future in balìa delle oscillazioni della moda[28] (anche se una volta tanto il sistema incorporebbe un premio per la categoria meno trendy).

1.3 Mortalità e morbilità

Quest'analisi trovò già nel XVIIº secolo uno strumento di grande potenza nelle prime tavole di mortalità di Graunt, e costituisce oggi la colonna portante della non sempre allegra scienza demografica.

è peraltro evidente l'interesse che anche per le discipline biologiche può assumere un sistematico studio statistico di mortalità e morbilità[29]. Dall'osservazione delle cause di morte otteniamo dati preziosi per comprendere le modalità della selezione naturale sia nel passato che in prospettiva. L'analisi differenziale viene condotta principalmente per sesso, condizione socioprofessionale o appartenenza nazionale[30] — oltreché naturalmente per età, che è la distinzione fondamentale. L'estrema rilevanza delle mediazioni sociali e culturali rende però difficile ricavarne elementi illuminanti per comprendere il terreno sul quale la selezione naturale si dispiega nella sua forma più eclatante, "la sopravvivenza del più adatto". Per quanto ivi applicabili, questi metodi sono più fruibili se applicati alle popolazioni animali.

Su questo terreno di confine tra demografia, epidemiologia e statistica medica è possibile ad esempio valutare la reale incidenza delle diverse cause di morte in termini di anni sottratti alla speranza di vita (che può venire calcolata in assenza di una o più di esse). Si vede così come non sempre quelle cui è attribuibile il maggior numero di decessi siano quelle che di fatto sottraggono maggiore vita (misurata in persone-anno): torneremo su questo nella sez. 2.1.

Un'altra distinzione di rilievo è quella tra età media, età media al decesso, speranza di vita e longevità. La prima si riferisce all'età che ad una certa data hanno i membri della collettività in esame. La speranza di vita è il numero di anni che in media possono aspettarsi di vivere da una certa età in poi: la più usata è la speranza di vita alla nascita (calcolata perciò all'età 0); questa non corrisponde che in circostanze molto particolari (stazionarietà della popolazione) all'età media al decesso, che è influenzata dalla struttura per età. La longevità può riferirsi infine all'età alla quale mediamente dovrebbe avvenire quella che nel linguaggio comune si chiama morte di vecchiaia, intendendo per essa non la morte all'età più avanzata, bensì semplicemente quella non precoce[31].

1.4 Le migrazioni

Il fenomeno è forse ancora più importante per i biologi che per i demografi (cfr. Jacquard, p.36). Innanzitutto, per i genetisti di popolazione — i quali però, pur avendo bisogno dei dati dei demografi, definiscono la popolazione in modo molto diverso, in base alle frequenze geniche. Inoltre gli spostamenti degli individui (vale anche per gli animali) sono fondamentali per la trasmissione delle malattie infettive — senza contare gli effetti della densità di popolazione sulla trasmissione del contagio.

Per un'analisi generale delle interrelazioni tra questo fenomeno demografico e la biologia (in particolare la genetica di popolazione) rimando agli interventi di Termote, Lucchetti e Soliani, e Cliquet.

1.5 Demografia storica

L'approccio demografico permette di gettare luce sui comportamenti dell'uomo comune, laddove essi sono massimamente rilevanti: nascita, matrimonio (o comunque procreazione), morte. Si realizza così una storiografia dal basso, spesso appoggiata su una buona documentazione, opposta a quella di impronta ottocentesca — attenta alle vicende di pochi grandi individui (quando non anche alle inclinazioni delle "razze").

Nell'ambito della storia demografica appare di particolare interesse la distinzione introdotta nella sezione 1.3: quando si legge che la speranza di vita nelle società preindustriali era intorno ai 25-30 anni[32], viene spontaneo immaginarsi una sorta di senescenza accelerata dei nostri antenati. In realtà l'aumento della speranza di vita alla nascita è dovuto soprattutto al calo della mortalità infantile: fino al XVIIIº secolo la probabilità di morire entro i 10-15 anni era intorno al 50%[33], mentre la longevità non ha invece subito variazioni così notevoli[34]. Dal punto di vista del metodo c'è ancora da segnalare che le tecniche sviluppate dai demografi per l'indagine retrospettiva delle popolazioni — in particolare la ricostruzione delle famiglie — sono preziose per il genetista[35], ad esempio nello studio delle caratteristiche recessive.

Se adottiamo un'ottica di tipo sistemico[36] possiamo cercare le condizioni in base alle quali un sistema demografico può configurarsi come omeostatico[37]. Il punto di partenza è la mortalità, che possiamo considerare come esogena; né la convenienza individuale né le norme culturali tendono infatti a rifiutare un abbassamento di mortalità: sono allora nuzialità e fecondità — controllate in una certa misura dal sistema di norme sociali — a dovere, per così dire, giocare di rimessa. Come a fortiori ci aspettiamo avvenga anche per gli altri animali, per la nostra specie le forze di eliminazione sono probabilmente sempre state assai robuste. In più, la mortalità umana è stata anche caratterizzata da picchi improvvisi e violenti. Questo può valere per tutte le specie viventi (si pensi alle catastrofi naturali — pare ne sappiano qualcosa i poveri dinosauri); ma proprio la superiore organizzazione sociale e produttiva ha reso la nostra specie anche più vulnerabile a tali poco gradevoli oscillazioni: se gli eventi bellici hanno avuto nel passato un impatto diretto spesso modesto, è innegabile che l'affollamento in centri abitati e i contatti dovuti ai commerci abbiano di molto favorito la comparsa di epidemie. L'Homo sapiens è riuscito a surclassare le specie di predatori di grosse dimensioni, che sicuramente più hanno turbato i sonni dei nostri antenati (i quali a loro volta potevano allietarne i pasti); ma ha scoperto — come gli extraterrestri ne La guerra dei mondi di Wells[38] — i nemici più grandi tra gli esseri viventi più piccoli[39] (oltre che in se medesimo[40]).

L'andamento della mortalità, per tornare ai nostri sistemi omeostatici, ha dunque richiesto alla fecondità non solo un livello sufficientemente alto per controbilanciare le perdite, ma anche una grande flessibilità per potersi sincronizzare con andamenti estremamente irregolari[41]. Esistono probabilmente delle dinamiche strettamente biologiche che agiscono in questo senso, oltre a quelle che in circostanze ordinarie temperano la fecondità rispetto al livello teoricamente massimo. Studi sugli animali ipotizzano ad esempio una denatalità da sovrappopolazione; spesso aumenta anche l'aggressività intraspecifica arrivando al cannibalismo, oltre che a pratiche sessuali non finalizzate alla riproduzione, per arrivare addirittura al suicidio collettivo[42].

L'umanità non sfugge necessariamente a queste dure regole, sebbene possa mettere in atto strategie essenzialmente culturali. Wrigley (pp.42-4) fornisce una panoramica delle soluzioni escogitate da diversi gruppi umani oggetto di indagine antropologica: si va dalle interminabili astinenze dei Djuka (per aspera ad astra) agli stratagemmi anticoncezionali degli Achehnese, dalle deviazioni sessuali nei Tikopia agli infanticidi degli eschimesi Netsilik, dei siberiani Ghiliachi e degli australiani Arunta (la lista continua con Nootka, Thlinkeet, Rendille, Bangerang, Narrinyeri, Kurnai, Whatdhaving e Motu Motu). Ma l'ammortizzatore principale, perlomeno nelle società prevalentemente agricole dell'Europa post-medievale, era rappresentato dalle fluttuazioni dell'età al matrimonio influenzata in particolare dai meccanismi giuridico-economici relativi alla successione.

1.6 Fine della selezione naturale?

Sembra proprio che non tutto il bene venga per giovare. Tra i frutti avvelenati che il calo della mortalità relativo alla transizione demografica[43] ha recato all'umanità, non ci sarebbe da annoverare solo la sovrappopolazione. Molti paventano infatti che, dal punto di vista più propriamente evoluzionistico, questo sviluppo possa averci allontanato dalla selezione naturale. Come risultato dei progressi di medicina ed igiene, la riproduzione differenziale non si baserebbe più, in particolare nei paesi a sviluppo avanzato, su differenze di resistenza alla mortalità. Molto più peso avrebbe casomai la propensione alla procreazione, che possiamo presumere influenzata maggiormente da variabili socioeconomiche che non genetiche.

Steve Jones ha rilanciato una polemica (cfr. l'articolo de la Repubblica del 13 dicembre 1999[44]) che non era certo nuova. Leridon ad esempio (pp.92-4) metteva in rilievo come per queste ragioni[45] "the weight of biological factors, therefore, has been considerably reduced". Perentorio Monod: "Il est évident qu'au sein de sociétés modernes, la dissociation est totale. La selection y a été supprimée. Du moins n'a-t-elle plus rien de "naturel" au sens darwinien du terme". Questo perché "l'intelligence, l'ambition, le courage, l'imagination sont certes toujours de facteurs de succés dans les sociétés modernes. Mais de succès personnel, et non génétique[46], le seul qui compte pour l'evolution", mentre "il y a plus: à une époque encore récente, même dans les sociétés relativement "avancées, l'elimination des moins aptes, physiquement et aussi intellectuellement, était automatique et cruelle. La plupart n'atteignaient pas l'âge de la puberté. Ajourd'hui, beaucoup de ces infirmes génétiques survivent assez longtemps pour se reproduire" (p.206). In effetti in alcuni passaggi l'argomentazione, che rispecchia i timori della demografia qualitativa britannica a cavallo tra ottocento e novecento, non pare lucida come il resto dell'opera. Non fosse altro perché, se veramente oggi questi danni genetici consentono comunque una vita quasi normale, dobbiamo prendere atto del fatto che non costituiscono più una tara grave[47]. L'attività antropica si configura né più né meno come un cambiamento ambientale di altra origine — "naturale" verrebbe da dire.

Inoltre mi chiedo quante lacrime sia giusto versare sulla (presunta) fine della selezione naturale. Anzitutto, secondo quale criterio giudicare la questione? Personalmente propendo per la massimizzazione dell'utilità universale — non condivido perciò il reverenziale rispetto per la natura (se ne parlerà oltre), né il passaggio logico dalla scoperta dell'importanza della selezione darwiniana alla necessità di favorirne l'operare[48]. In quest'ottica utilitaristica va allora detto che la selezione naturale è un meccanismo con alcuni pregi (per esempio una certa solidità) ma anche difetti evidenti: non solo essa è estremamente rigida e lenta, ma soprattutto lastricata di sangue e sofferenze (cfr. Dawkins in Appendice). Noi godiamo oggi del sacrificio di innumerevoli generazioni di nostri (mancati) antenati, per quanto l'uniformità ambientale con il passato ce lo permette[49]. Ma non possiamo certo auspicarci di diventare noi stessi oggetto di tale inefficiente adattamento.

Inoltre non è neanche detto che la pressione selettiva sia veramente diminuita. Ruse ad esempio lo nega (p.285) "La conclusione perciò è che gli uomini hanno alterato e continuano ad alterare il corso dell'evoluzione. Questo malgrado molti si illudano [o paventino] oggi che grazie alla moderna tecnologia l'evoluzione biologica dell'uomo si è arrestata. La verità è che invece l'abbiamo accelerata[50]". è poi chiaro che eventuali progressi dell'ingegneria genetica potranno rimettere completamente in discussione i termini della questione[51].

Ciò che però rende per noi interessante la controversia è che il demografo può dire più che una parola al proposito. Procediamo con ordine:

*   dal punto di vista della mortalità, bisogna considerare le componenti per causa e soprattutto per età. La morte dopo l'età feconda non ha conseguenze (dirette, perlomeno[52]) sull'ereditarietà (cfr. Cliquet p.202). Da qui forse le sofferenze fisiche della condizione anziana, sottoposta solo assai marginalmente a selezione naturale[53]. Vediamo allora che in effetti le cause di morte infantili e giovanili si sono assai ridotte, anche se (specie le seconde) non certo annullate: alcolismo e suicidio giovanili, AIDS, droga, incidenti stradali sono esempi abbastanza evidenti. Di fronte a molte nuove insidie in effetti manca una copertura genetica[54], quindi è immaginabile un graduale orientamento in questo senso. L'ottimismo relativo al calo della mortalità può rivelarsi d'altronde mal riposto alla luce dell'aumento degli agenti inquinanti e mutageni. Ci siamo mai chiesti se l'aumento della speranza di vita reggerebbe ancora, se potessimo retrodatarne il conto dalla nascita al concepimento? Da quanto si sospetta sulla diminuzione della fertilità umana[55] c'è da pensare che si potrebbe avere qualche sorpresa. Se così fosse la selezione non avrebbe addolcito (nella misura che si crede, almeno) la propria morsa; anche se c'è da convenire che l'ipotetico anticipo della mortalità infantile all'età prenatale sia comunque vantaggiosa (nell'ottica piacere/dolore) per i nostri conspecifici[56].

*   per quanto riguarda la fecondità, va detto anzitutto che i demografi potrebbero aiutare a verificare fino a che punto è vero che oggi i meno adatti si riproducano maggiormente, oltre che sopravvivere: per molti difetti genetici questo mi pare poco verosimile. è invece certo[57] che l'aumentata mobilità abbia diminuito il grado di inbreeding, col simpatico risultato di ridurre anche l'incidenza fenotipica delle tare recessive (vedi Lucchetti e Soliani p.163, Cliquet pp.187-8 e 205). Un eventuale spostamento della fecondità verso le età meno giovani avrebbe poi l'effetto di aumentare il pericolo di aberrazioni cromosomiche, ma sul lunghissimo periodo anche quello — suppongo caro ai selezionisti radicali — di estendere la copertura genetica ad età più avanzate[58].

*   una delle conseguenze più eclatanti della transizione demografica, più precisamente delle differenze di tempi e modi nel compierla[59], è quella di aver reso prevalente la selezione demica rispetto a quella individuale[60]. Da questo punto di vista si può ammettere che i fattori genetici di selezione diventino marginali rispetto alle condizioni socioeconomiche tra le diverse aree del mondo. Anche qui, è possibile che una certa importanza assumano in futuro le tecniche artificiali di riproduzione (cfr. n.63 più sotto) — che potrebbero ridurre il divario di fecondità tra le popolazioni ricche e quelle povere.

Ecco allora che i demografi possono raccogliere e analizzare i dati, avanzare previsioni, studiare le interconnessioni tra i fenomeni. Possono insomma dare sostanza e misura alle diverse ipotesi anche su questo terreno.



[1] Ringrazio Carlo Maccheroni per i preziosi consigli.

[2] Su questo e altri argomenti toccati in quest'introduzione si veda Federici 1987.

[3] Cfr. Keyfitz, ripreso da Scardovi (1985): "Tra l'analisi biologica e quella sociale della popolazione si apre un'ampia area di ignoranza. Come tanti altri scienziati sociali, i demografi si sono preoccupati di evitare la biologia perché ritenuta non rilevante ai loro fini, o addirittura pericolosa. (...) I manuali di biologia incorporano brevi trattazioni di demografia. Ma questa attenzione non è reciproca." Continua poi Scardovi: "è vero. Ed è vero anche che se si vuole infastidire un demografo — salvo alcune belle, luminose eccezioni — si deve parlargli di biologia delle popolazioni, di genetica delle popolazioni: vale a dire di scienza". Anche Cliquet (p.183) si riferisce a Keyfitz: "demography appears to be of much greater importance [per la genetica di popolazione] than is often thought, even in the demographic community itself. Whereas demographic variables are routinely included in bio-anthropological and population genetic work (e.g. Adams et al., 1990; Cavalli-Sforza & Bodmer, 1971), demography only occasionally deals with these interrelationships (e.g. Keyfitz, 1984)". Rincara la dose, allargando anche il campo, Van der Berghe (p.98): "... gli ostacoli intellettuali che gli studiosi di scienze sociali erigono fra se stessi e la loro comprensione del pensiero biologico evoluzionistico. L'onere del riavvicinamento ricade chiaramente su di essi. Sono essi a dover tornare alla fraternità scientifica. Sono essi che dovranno gettar via i paraocchi intellettuali che si erano autoimposti."

[4] Possiamo trovare un po' esagerato l'entusiasmo di Pietro Verri ("gli uomini forse più benemeriti del genere umano sono quelli che si occupano di storia naturale" — nella mostra Pietro Verri e la Milano dei Lumi, Milano gennaio-marzo 1998, senza indicazione della fonte bibliografica). Più facile però concordare con quanto è stato autorevolmente sostenuto, "la biologie est-elle, pour l'homme, la plus signifiante de toutes les sciences; celle qui a déjà contribué, plus que toute autre sans doute, à la formation de la pensée moderne, profondément bouleversée et définitivement marquée dans tous les domaines: philosophique, religieux et politique, par l'avènement de la théorie de l'Evolution" (Monod, p.11).

Disconoscere la rilevanza della biologia sarebbe a mio modo di vedere una grave miopia intellettuale, anche se comprensibile alla luce degli abusi che spregiudicate dottrine sociologiche e soprattutto criminali dittature ne hanno fatto nel passato.

[5] Questo non vale per tutti, naturalmente (le belle, luminose eccezioni cui si riferisce Scardovi 1985). Né vale necessariamente per il passato, quando un approccio di tipo naturalistico era assai più diffuso. Si veda ad esempio I fattori biologici dell'ordinamento sociale di Livio Livi (1936), poi ristampato come primo volume del Trattato di Demografia, che contiene tra l'altro una rassegna del pensiero pre-wilsoniano (chiamiamolo così) da Darwin in poi. Nella prefazione è scritto: "Le forme associative possono considerarsi più o meno come conseguenza di taluni caratteri di specie. Sicché (...) mi confermai nell'opinione che non si poteva, per lo studio delle società stesse, tagliare ogni collegamento col mondo naturale. Mi convinsi anzi che i fatti del mondo animale potevano dar molta luce allo studio della società umana, e che considerando l'uomo dal punto di vista zoologico si poteva avere una buona guida per la comprensione dell'essenza della società e delle forze che la tengono unita" (pp.LXIX-LXX). Su questo vedi Scardovi 1994 (specialmente pp.191-9).

[6] Scardovi (1985) parla della demografia come di una "virtuale koinè euristica"; Federici, tra gli altri, la definisce "disciplina-ponte tra le scienze naturali e le scienze sociali"(p.20). Diversi contributi su questo punto sono menzionati in de Bruijn, pp.1-3.

[7] "Il più certo modo di celare agli altri i confini del proprio sapere, è di non trapassarli" (Leopardi, Pensieri, LXXXVI).

[8] Lucchetti e Soliani accennano, a proposito dell'analisi dei cognomi, alla possibilità di superare "la distinzione, troppo a lungo mantenuta, tra l'approccio biologico, demografico e socio culturale nello studio delle popolazioni umane e della loro storia ed evoluzione" (p.175). Anche il contributo di Scardovi del 1994 perora la causa di una maggiore apertura interdisciplinare della demografia, in particolare verso la biologia — un punto di vista condivido ampiamente. Rimando dunque al suo intervento per una trattazione più ampia di questo tema.

[9] Non insisterò invece, se non di passaggio, sul piuttosto scontato presupposto biologico della demografia.

[10] Il termine fertilità indica il potenziale fisiologico di procreazione, mentre fecondità si riferisce all'effettivo numero di figli. Si noti però che in inglese il significato di fecundity e fertility è invertito rispetto alle lingue latine, con immediato effetto su molte traduzioni.

[11] "Probably for historical reasons, demography developed using almost exclusively concepts and tools developed by statisticians. Population genetics on the other hand, first went through a period of predominant use of statistical analysis (notably under the influence of R.Fisher); then it grew mainly by using probabilistic thinking (Sewall Wright and, most of all, M.Kimura). It would no doubt be useful for there to be a similar evolution of demography towards a generalized use of the probabilistic language" scrive Jacquard (p.31), che poi aggiunge "Demographers moreover pay attention to the mean of a studied parameter, while geneticists note rather its variance. This discrepancy is especially clear about fertility [cfr. n.45]". Su quest'ultimo aspetto vedi per es. Gallino p.XXIII.

[12] Continua poi (pp.206-7): "L'intersezione tra genetica di popolazioni e demografia scientifica attiene dunque anche ai paradigmi teorici: e sono paradigmi statistico-probabilistici; come la genetica di popolazioni indaga il modificarsi delle frequenze statistiche dei geni, così la demografia osserva il rinnovarsi e il distribuirsi dei portatori di quei geni: e sono distribuzioni statistiche".

[13] La più intuitiva delle misure sintetiche della fecondità è il TFT (tasso di fecondità totale), che si costruisce semplicemente sommando i tassi di fecondità specifici per età, e che dà come risultato il numero di figli di ambo i sessi che una coorte di donne avrebbe in assenza di mortalità. Per il tasso netto di riproduzione, assai importante in demografia, il calcolo è invece effettuato separatamente per sesso (di regola quello femminile), e tiene conto anche dell'effetto della mortalità: il numero delle madri potenziali ad ogni età viene infatti decurtato dei decessi; l'ammontare finale della discendenza femminile è pertanto minore che non nell'ipotesi di assenza di mortalità (la misura sarebbe in quest'ultimo caso il tasso lordo di riproduzione R). La formula è:                                                         (1)

Le quantità fx sono i tassi di fecondità specifici (numero di figli avuti in media nei dodici mesi di età x compiuta), mentre a e b-1 sono rispettivamente l'età minima e massima del periodo fecondo (convenzionalmente stabilite in 15 e 44 o 49 anni); k è infine il rapporto tra i sessi alla nascita (circa 105 maschi per 100 femmine). Tratti dalle tavole di mortalità (che hanno riferimento ad una generazione, anche fittizia) sono poi i sopravviventi all'età esatta (lx) e gli anni vissuti nell'intervallo (Lx, pari convenzionalmente alla media aritmetica tra lx ed lx+1). Il rapporto Lx/l0, equivale alla probabilità di sopravvivenza dalla nascita fino all'età compiuta x (equivalente in media all'età esatta x+0,5); è questa probabilità a ridurre la fecondità effettiva nel corso degli anni in ragione della mortalità. Se la mortalità fino all'età b fosse nulla, gli Lx sarebbero tutti uguali ad l0: la probabilità, uguale ad uno, sparirebbe dalla formula e quindi R0 coinciderebbe con R (se non tenessimo conto neanche del k, la formula sarebbe quella del TFT).

[14] Cfr. Bodmer e Cavalli-Sforza, II, pp.58-61, par. La cinetica della selezione darwiniana, e Lucchetti e Soliani, §3.2.

[15] Si intende qui quello che Wilson chiama "altruismo a oltranza in contrapposizione con l'altruismo moderato: il primo è basato su particolarissimi tipi di catena genetica tramite l'aiuto ai parenti e il secondo consiste nella reciprocità — il ben noto contratto sociale che governa tanta parte del comportamento umano" (Wilson-Harris, p.153). Per una definizione si veda Gallino p.XV (che cita Barash): "Nel linguaggio della sociobiologia il termine altruismo non ha alcuna connotazione morale, né presuppone un elevato livello di coscienza: è semplicemente «un atto che riduce il successo riproduttivo personale di chi lo esegue mentre aumenta il successo riproduttivo di altri»".

[16] Cfr. Melotti p.78, che cita Maynard Smith. Cfr. anche Gallino p.XI.

[17] Questa procedura è per esempio adombrata in Van der Berghe (pp.109-10): "Si presume, per esempio, che i genitori i quali hanno superato l'età della riproduzione siano più altruisti verso i figli in grado di riprodursi di quanto non lo siano questi verso di loro, quantunque il loro coefficiente di parentela sia identico".

[18] L'operazione è in verità ridondante: se nelle formule presentate in questo paragrafo lasciassimo a tutto l'arco di vita l'estensione delle sommatorie relative alla fecondità (scrivendo w-1 in luogo di b-1), il risultato non cambierebbe: da   b  in poi, infatti, tutti gli fx si considerano nulli.

[19] Per una trattazione di tutti questi punti (altruismo, idoneità complessiva, coefficiente di parentela biologica) vedi Melotti 1986, pp.76-8.

[20] Vi sarebbero delle puntualizzazioni da fare dal punto di vista demografico. Nella formula considero gli Lx (discorso analogo può farsi per gli fx) come relativi ad un individui, mentre essi hanno normalmente riferimento collettivo. L'ipotesi implicita è allora quella di applicare all'individuo in questione una tavola di mortalità, anche ideale: ciò che in realtà interessa non è la procedura di costruzione della tavola di mortalità, bensì disporre almeno in linea di principio di un modo per quantificare il tempo da vivere — che può essere stimato anche soggettivamente.

[21] Riassumendo, la formula-base dell'altruismo si limita perciò a calcolare se  è maggiore o minore di uno. Dinamizzare rispetto all'età significherebbe aggiungere le speranze di sopravvivenza, arrivando a:                                                   (3)

(gli Lx dovrebbero venire divisi per la radice, che vale 10n, della tavola di mortalità ¾ cfr. nota 13 ¾ ma si semplifica tra numeratore e denominatore).

Possiamo poi estendere ulteriormente la (2), ad esempio tenendo conto delle probabilità stimate a priori di salvare i consanguinei e di perdere la  vita in conseguenza del tentativo, il cui esito adesso non consideriamo più certo. Se p è la probabilità di sopravvivere (escludiamo l'eventualità di ferite o mutilazioni) al singolo evento analizzato, avremo allora:                                                  (4)

L'ipotesi è che, in assenza del nostro intervento le pi sarebbero state tutte nulle e pego uguale ad uno.

[22] Cfr. Federici, p.30.

[23] In realtà tutte le popolazioni si allontanano dall'ideale un po' rousseauiano di "fecondità naturale" (cfr. de Bruijn, pp.8-9), che dovrebbe rispecchiare la pura fertilità.

[24] Per possibili effetti distorsivi dal punto di vista selettivo si veda il par. 1.6.

[25] Un discorso parallelo era già stato fatto da Lorenz ne L'aggressività (vedi il cap.XIII): all'evoluzione degli strumenti di offesa non avrebbe corrisposto uno sviluppo nelle inibizioni istintive all'aggressione intraspecifica. In questo senso anche la ricerca di Dave Grossman, On Killing, recensita da Cristina Mochi.

[26] L'istituzione del "matrimonio riparatore" tende per esempio a fare entrare stabilmente in fase riproduttiva i più fertili (o forse i meno avveduti). Questo vale in particolare nelle società tradizionali, nelle quali più stretto è il legame precocità del matrimonio/discendenza finale.

[27] Cfr. ad es. Milano, p.82.

[28] A dire il vero questo sarebbe possibile già da tempo. Vi allude con nonchalance Harsanyi 1994: "Prendiamo ad esempio il sesso come variabile«immutabile» (trascurando gli esempi di cambiamento di sesso)..." (p.152).

[29] Una rassegna di contributi demografici allo studio della mortalità è in Soliani e Lucchetti, §5.

[30] Sarebbero possibili innumerevoli applicazioni, per esempio con attenzione a variabili di carattere ambientale, quali l'esposizione a fattori inquinanti o la densità di popolazione.

[31] Per almeno i primi tre concetti è possibile dare definizioni formali. Relativamente all'anno t avremo:

Età media:                                                                             (5)

Età media al decesso:                                                    (6)

In riferimento ad una determinata tavola di mortalità abbiamo invece la speranza di vita alla nascita:

           (7)                         ; alla generica età x vale:                                   (8).

I simboli rappresentano l'ammontare delle classi di età (Px) e dei i relativi decessi (Mx) nella popolazione reale; a questa si contrappone la popolazione stazionaria associata alle tavole di mortalità (per lx e Lx si veda la nota 13).

Per la longevità può farsi invece riferimento al cosiddetto punto di Lexis, ovvero alla moda (questo termine dal sapore frivolo indica in statistica la classe, qui di età, con massima frequenza) dei decessi in età adulta; Lexis pensava di poter leggere nel grafico dei decessi per età — fatta astrazione da quelli infantili e accidentali — una sorta di curva gaussiana con scostamenti casuali dall'età normale alla morte. Chi preferisca riferimenti più umanistici potrà ricorrere al Dialogo di un fisico e di un metafisico: "[Metafisico] ... Io so che oggi i vostri pari tengono per sentenza certa, che la vita, in qualunque paese abitato, e sotto qualunque cielo, dura naturalmente, eccetto piccole differenze, una medesima quantità di tempo, considerando ciascun popolo in grosso." (Leopardi, Operette morali). Sulle ipotesi biologiche concernenti l'invecchiamento,  cfr. Soliani e Lucchetti §3.

[32] Molto inferiore, dunque, a quella dei paesi più poveri di oggi.

[33] Già osservava Hume: "Nature has rendered human infancy peculiarly frail and mortal; (...) The half of mankind die before they are rational creatures" (Of the Immortality of the Soul, p.95, nei Posthumous Essays).

[34] Per quanto anch'essa si sia allungata. Dal punto di vista sociologico è interessante la tesi di Ariès (p.65): "Se durante il vecchio regime si entrava nella vita più giovani, se ne usciva anche meno vecchi: e ciò a causa della morte, senza dubbio più frequente, ma soprattutto perché ci si ritirava. Arrivato sulla cinquantina, l'attività dell'uomo rallentava. Egli faceva già la figura del vecchio che i giovani ingannavano e sberleffavano". Ariès accenna anche ai "vecchioni di Molière". Dovendo portare prove letterarie, aggiungerei l'illuminante IIº sonetto di Shakespeare:

When forty winters shall besiege thy brow,

And dig deep trenches in thy beauty's field,

Thy youth's proud livery so gaz'd on now,

Will be a tatter'd weed of small worth held:

Then being ask'd, where all thy beauty lies,

Where all the treasure of thy lusty days;

To say within thine own deep sunken eyes,

Were an all-eating shame, and thriftless praise.

How much more praise deserved thy beauty's use,

If thou could'st answer this fair child of mine

Shall sum my count, and make my old excuse

Proving his beauty by succession thine.

This were to be new made when thou art old,

And see thy blood warm when thou feel'st it cold.

Rivolgetevi oggi ad un quarantenne in questi termini (parlo anche a titolo personale), e avrete rotto un'amicizia.

[35] Cfr. Jacquard, p.30 e Bodmer e Cavalli-Sforza v.I, pp.39-66. Segnalo anche l'articolo Tra scienza e genealogia, che riporta una ricerca sul morbo di Alzheimer che è stata spinta sino alla prima metà del XVIIº secolo.

[36] Questa impostazione, più affine all'indagine biologica, non è certo l'unica possibile: possiamo ad esempio immaginare un approccio di tipo economico — l'ottica sarà allora quella della convenienza del singolo; oppure uno di tipo sociologico, incentrato sulla dinamica culturale, in particolare dei valori, e sullo studio della cogenza di questi ultimi sui comportamenti riproduttivi (se non anche di sopravvivenza). Hobcraft e Kiernan, p.31, riportano l'affermazione di Duesenberry "economics is about choice; sociology is about lack of choice".

[37] Nelle popolazioni storiche possiamo assumere la stazionarietà demografica come condizione di equilibrio del sistema, anche se ciò rappresenta una semplificazione: anzitutto va osservato che il trend epocale della popolazione umana è stato positivo, seppure quasi sempre in misura impercettibile e con parentesi anche durature di regresso; Livi Bacci 1981, p.114, mette inoltre in rilievo come stabilità strutturale non significhi necessariamente stabilità demografica. Un approccio evoluzionistico può infine ispirarci un certo scetticismo verso un rigido utilizzo del concetto di equilibrio (si veda Boulding, p.72).

[38] Possiamo pensare anche all'epico duello di stregoneria de La spada nella roccia.

[39] Cfr. ad es. Ruffié e Sournia p.44.

[40] Dovendo aggiungere l'ipse dixit all'evidenza, possiamo ricorrere a Monod (p.204): "Dominant désormais son environnement, l'Homme n'avait plus devant soi d'adversaire sérieux que lui-même. La lutte intraspécifique directe, la lutte à mort, devenait dés lors l'un des principaux facteurs de sélection dans l'espèce humaine. Phénomène extrêmement rare dans l'évolution des animaux."

[41] Questo tipo di interpretazione causale è l'inverso di quella malthusiana tradizionale, secondo la quale le forze di eliminazione si incaricano di riportare l'ammontare della popolazione, dilatato da una natalità eccessiva, a livelli sostenibili dalle sussistenze: qui è infatti la mortalità a venire considerata esogena, mentre la fecondità deve adeguarvisi.

[42] Reynolds scrive (p.160, in Furcht 1985, p.120): "In certe specie di roditori, particolarmente topi campagnoli, alcuni cambiamenti fisiologici del sistema riproduttivo (ad esempio, il riassorbimento del feto) si associano a condizioni di sovraffollamento. Sembra che queste condizioni in molte specie di roditori, come pure in molti altri mammiferi, si accompagnino a situazioni di notevole attenzione emotiva, con l'aggressività come fatto concomitante, comune nei ratti e nei topi, e l'uccisione dei piccoli, che vengono poi divorati, nei ratti." E poi prosegue (p.167, in Furcht 1985, p.121): "Quanti più animali vengono raggruppati in un determinato spazio, cioè quanto maggiore è la densità di popolazione, tanto più elevato sarà il livello globale [pro-capite, intende] di secrezione adrenalinica e noradrenalinica da parte di tutti gli animali, specialmente di quelli subordinati. Da un punto di vista comportamentale, si vede che la crescente densità si correla con una crescente aggressività da parte degli animali dominanti, mentre i subordinati tendono a scappare o si rannicchiano per la paura. A questo stadio, la riproduzione può cessare, i giovani possono venire divorati e, in generale, l'intera serie di cambiamenti può essere vista come meccanismo per fare selettivamente spazi.". Vedi anche Lorenz, p.300.

[43] Con "transizione demografica" si intende il passaggio ad un regime demografico, proprio della nostra epoca, caratterizzato da bassi livelli di natalità e mortalità.

[44] Vi si legge: "Il caposaldo numero uno del darwinismo — e cioè l'esistenza di un brutale processo di selezione naturale in base al quale sopravvivono solo gli esseri più forti — «non è più presente nella società moderna. In altri tempi il 'debole' sarebbe morto prima di avere figli. Adesso invece si riproduce con altrettanta efficienza». La medicina gli consente non solo di vivere a lungo ma di colmare quasi ogni handicap. La vita urbana con il suo vorticoso gioco delle coppie ha portato ad un generale livellamento 'medio' nella qualità dei geni". Per una più sfumata conferma della parte di questa tesi relativa alla mortalità, si veda Cliquet pp.201-5. Una valutazione degli effetti dell'odierno meccanismo di formazione delle coppie sempre in Cliquet, §3.1.

[45] Si riferisce anche, dal lato della fecondità, alla riduzione nella varianza del numero dei figli tra le coppie. Sulla fecondità (e sugli effetti dell'aborto terapeutico sul pool genico) si veda Cliquet §3.2.

[46] Possiamo in verità aspettarci qualche vantaggio dal lato della sopravvivenza (misurabile ad esempio in termini di riduzione delle probabilità di morte per età qx), benché l'ipotizzabile concentrazione nelle età anziane lo renda poco significativo dal punto di vista della selezione. L'ipotesi di Monod sulla fecondità, ragionevole, è che il successo sociale negli animali (quelli che vivono in gruppo, ovviamente) si traduca di norma in successo sessuale e perciò in una più numerosa discendenza. Per gli esseri umani il successo sociale (che comprende anche quello economico), anche comportasse un maggior successo sessuale, non implicherebbe però un maggior numero di figli (cfr. sez.1.2). Si veda però ancora il §3.2 di Cliquet, in particolare il riferimento all'ipotesi eugenica (p.200) "In some countries the the earlier negative association between fertilità and SES-indicators show the first signs of a possibile reversal, confirming Osborn's (1952; 1968) eugenic hypothesis, stating that in a situation of free choice the distribution of  births will favour more children being born in the most favourable home environments. This implies that the end of the demographc transition might be characterised by a positive association between reproductive fitness and socially valuable traits" e, nel seguito, alle relative conferme empiriche.

[47] Di questo parere anche H.Harris, cfr. pp.7-8.

[48] Newton non si è certo buttato dalla torre di Londra dopo avere scoperto la gravitazione universale. Su questo mi pare chiaro Ruse, che esprime anche qui un parere equilibrato (pp.271-7); in particolare, dopo aver menzionato l'errore naturalistico rilevato da Hume nel Treatise, evidenziato proprio a proposito dell'etica evoluzionistica da G.E.Moore nel 1903 (vi si soffermano molti testi, cfr. ad es. Musacchio p.20 e Rollin p.24; ma vedi soprattutto Boccara 169-70 e, ancora più diffusamente, Ricken pp.49-56), osserva: "Ora, è abbastanza chiaro che gli etici evoluzionisti commettono l'errore naturalistico. Infatti passano da «Così è il mondo» (a causa dell'evoluzione) a «Così dovrebbe essere il mondo» (e perciò bisogna aiutare l'opera dell'evoluzione)" (p.273); cfr. anche Scarpelli p.6 e Popper p.100. Nel merito dell'etica evoluzionistica si veda infine Engelhardt pp.48, 196 e 275.

[49] Ricorda Engelhardt, a proposito dell'identificazione delle malattie: "Noi siamo il prodotto di forze selettive cieche, le quali, se hanno avuto successo, ci hanno adattato ad ambienti nei quali è possibile che non viviamo più" (p.196) e aggiunge poi (p.197): "si deve notare ancora un'altra difficoltà nell'appellarsi alle condizioni della natura o ai risultati dell'evoluzione. Un appello del genere rende i propri giudizi (...) ostaggio del passato".

[50] Si riferiva esplicitamente all'incremento di stress e tensione (che determinano un rilevante mutamento nel valore adattativo del genoma), agli scambi di agenti patogeni tra popolazioni diverse grazie alla mobilità, alle conseguenze dell'urbanizzazione, all'aumento delle sostanze mutagene. Sulla possibilità che la transizione demografica non abbia diminuito la pressione selettiva, cfr. Cliquet pp.197-8.

[51] Devo incassare l'appellativo di demi-savant che Monod (p.207) appioppa a chi diffonde quest'illusione, visto che "l'echelle microscopique du génome interdit pour l'instant et sans doute à jamais de telles manipulations". Anche stavolta Monod mi pare un pochino troppo — come si dice in francese — tranchant. Ruse infatti (pp.285-6) è più possibilista, e Rollin dedica il suo libro a possibili sviluppi di questo genere di tecniche. è in fondo un lato bello della scienza che, nonostante Verne e altri profetici autori di fantascienza, sia impossibile prevederne gli sviluppi (si veda in questo senso Popper, Prefazione a Miseria dello storicismo).

[52] Possiamo immaginare qualche tenue legame da un lato con i benefici (sfruttamento delle residue potenzialità produttive, trasmissione dell'esperienza e protezione della prole — i nipoti, magari) e dall'altro con il peso che il mantenimento dell'anziano (inteso qui come individuo al di là dell'età fertile) comporta per le generazioni più giovani.

[53] Un'ipotesi più sofisticata in Nesse e Williams: "Nel 1957 uno di noi (Williams) ipotizzò che i geni che causano l'invecchiamento e la morte potessero comunque essere favoriti dalla selezione naturale qualora avessero effetti vantaggiosi per i più giovani, quelli cioè che sono maggiormente sottoposti a pressione selettiva.[Seguono esempi relativi al metabolismo del calcio, alla gotta, al sistema immunitario: per "i più giovani" si intende il medesimo individuo in età giovane]" Gli autori aggiungono poi però: "è anche possibile, naturalmente, che la maggior parte dei geni che causano l'invecchiamento non porti benefici in alcuna fase della vita; in natura, questi geni potrebbero semplicemente non avere sulla capacità riproduttiva effetti tali da essere eliminati per selezione naturale." Si vedano anche Cliquet p.190 ed Engelhardt p.197.

[54] Facciamoci ancora aiutare da Ruse (p.254): "Quando si tratta di fobie l'uomo mostra la sua storia evoluzionistica. Per esempio, molti di noi rabbrividiscono di fronte ai serpenti, fenomeno di ovvio significato adattativo. D'altro canto, malgrado i frequenti incidenti, non si ha la stessa reazione di fronte ai coltelli, alle prese di corrente e ad altri oggetti pericolosi che si trovano in casa". Si tratta poi di allargare il discorso a coperture anche non comportamentali verso ad esempio nuovi agenti virali, inquinamento, fumo di sigaretta, alcool, droghe, alimentazione eccessiva e insana.

[55] Per esempio riduzione in numero e motilità degli spermatozoi. Mi pare ragionevole considerare l'ipotesi che i mutamenti ambientali responsabili di tale supposta diminuzione possano anche riflettersi sulla mortalità intrauterina (cfr. n.82), che a sua volta – se molto precoce – può essere difficilmente distinguibile da una minor fertilità. Sulla valenza selettiva della mortalità intrauterina cfr.Cliquet p.190.

[56] Scrive Engelhardt a p.251: "è estremamente improbabile che i feti, con i loro lobi frontali non completamente sviluppati né completamente connessi, siano in grado di provare sofferenza, anche se sono in grado di provare dolore. La sofferenza richiede il riconoscimento del dolore come qualcosa di minaccioso, di negativo, da evitare.  La sofferenza richiede qualcosa di più di una semplice proprietà dolorosa. Richiede un riconoscimento di quella proprietà, di quella sensazione, come qualcosa di sbagliato, di dannoso e di nocivo. è discutibile se i feti all'inizio della gestazione provino anche solo dolore."

[57] Cfr. Cliquet pp.194-6 per un parere più articolato.

[58] Cfr. Bodmer e Cavalli-Sforza (p.56) per il caso della schizofrenia. Tra i mali a forte componente ereditaria che insorgono tardivamente, merita di essere ricordata almeno la corea di Huntington (cfr. H.Harris p.69, e Milano pp.60 e 115).

[59] La transizione comporta quasi sempre un periodo iniziale di forte incremento della popolazione, perché inizia di norma con una discesa di mortalità, cui la fecondità si adegua con un ritardo che può essere anche di diversi decenni.

[60] "La selezione darwiniana è talvolta chiamata selezione intragruppo, poiché agisce sugli individui di un gruppo. Può esistere anche una selezione naturale che favorisce un gruppo rispetto a un altro, nel qual caso si parla di selezione intergruppo. Si tratta di una selezione che non necessariamente si riferisce a una competizione,a un conflitto diretto tra i gruppi. Può verificarsi semplicemente che certi gruppi abbiano un incremento di popolazione maggiore di altri (selezione demica)" (Bodmer e Cavalli-Sforza, II, pp.62-3).



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