Andrea Furcht

Modernizzazione, immigrazione, nuove vulnerabilità sociali

Parte 1 di 6


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1 Introduzione

Non occorre essere futurologi per accorgersi che l'evoluzione nel modo di produrre e consumare – due facce della stessa medaglia – ha preso un ritmo vorticoso anche in Europa, nonostante non sia nel nostro continente che si trova il cuore di tale processo. Stiamo sperimentando cambiamenti che incideranno profondamente nel mercato del lavoro sia dipendente che autonomo, e più in generale sull'organizzazione quotidiana della vita. L'origine è comune, e ha la sua radice principale nella rivoluzione informatica: da una parte il telelavoro e l'accentuarsi del processo di parcellizzazione, dall'altra l'inasprirsi della concorrenza anche internazionale e l'avvicinarsi di ristrutturazioni radicali in molti comparti (si pensi alla distribuzione).

La "grande trasformazione"[1] che si svolge sotto i nostri occhi può riassumersi nelle parole con le quali Camussone presenta il pensiero di Nicholas Negroponte[2]: "La produzione e il consumo di informazioni e di conoscenze rappresenteranno l'attività economica prevalente nella società del futuro. (...) Non si intende affermare, naturalmente, che i beni fisici perderanno di importanza rispetto ai prodotti digitali (informazioni, conoscenze e quant'altro può essere digitalizzato), quanto piuttosto che l'attività umana sposterà la propria attenzione dalla produzione materiale di un prodotto fisico (data oramai per scontata) alla sua progettazione, commercializzazione e distribuzione che sarà resa incomparabilmente più efficiente dalla facilità di circolazione dei bit permessa dalla nuova società digitale" (pp.38-9).

Queste prospettive inducono perlopiù inquietudine: si pensa ad un futuro di disoccupazione, alienazione, sperequazione nella distribuzione della ricchezza (in mano a poche multinazionali), in un quadro oltretutto di pervasivo controllo della privacy (affronteremo questi argomenti soprattutto nella sez.5.1).

Non è però obbligatorio guardare solo alla parte vuota del bicchiere riempito a metà: molte conseguenze, in particolare a lungo termine, potrebbero anche essere favorevoli. Così, in una più veloce rotazione dei posti di lavoro si tende a vedere solo il lato negativo, la possibilità di rimanere disoccupati[3] – mi pare tra l'altro che l'approccio di molti, anche giovani, resti ancorato alla mentalità del "posto fisso"[4] non necessariamente produttivo.

Si trascura così l'aspetto positivo della flessibilità dal punto di vista del lavoratore: oltre a quello, speculare, di ritrovare facilmente il posto dopo averlo perso, soprattutto quello di avvicinarsi per tentativi al lavoro che si preferisce (e per il quale, normalmente, si è più adatti) con vantaggio proprio e della collettività. Ancor più importante, maggiore produttività implica minor tempo dedicato al lavoro, e soprattutto – grazie al telelavoro[5] – agli spostamenti, con notevoli risparmi individuali ed ambientali (cfr. nota 18)[6]. Tra gli altri decisivi vantaggi del lavoro a distanza, spicca l'estrema adattabilità alle esigenze personali: è esperienza comune che gran parte del sacrificio che il lavoro comporta stia non tanto nell'ammontare in sé del tempo impiegato, quanto nella sua rigida distribuzione (potremmo ricorrere ad un'analisi economica di allocazione ottimale della risorsa tempo). Simili considerazioni possono applicarsi a forme di flessibilità, quali il lavoro a tempo parziale[7].

è mia impressione che il dibattito nel nostro paese abbia la tendenza a sottovalutare la potenzialità di sviluppo di questo scenario. Un chiaro esempio mi pare costituito dall'attenzione dedicata alla questione delle 35 ore: tra qualche anno quel dibattito apparirà di retroguardia[8]; altrettanto, del resto, successe a quelli dedicati all'inizio del secondo dopoguerra alle condizioni del lavoro agricolo e negli anni Settanta alla condizione operaia: nel frattempo fenomeni emergenti assai diversi, rispettivamente il boom industriale e poi del terziario avanzato, stavano modellando la società italiana.

Nel paragrafo 2 tenterò di prefigurare le principali conseguenze di tale evoluzione su alcuni gruppi: giovani, donne, anziani, lavoratori dipendenti di tipo tradizionale, negozianti. Nel par.3 l'ottica si allargherà ai movimenti internazionali di persone, prendendo in considerazione diversi tipi di immigrazione. Alla lotta alla criminalità ed al sistema di Welfare è dedicato il par.4, mentre nelle conclusioni svilupperò alcune interpretazioni del cambiamento in atto e qualche commento sulle politiche da adottare.



[1] Anche Amendola include in bibliografia, molto opportunamente a mio parere, l'opera di Polanyi (che per "grande trasformazione" intendeva l'avvento dell'economia di mercato): ci si tornerà diffusamente dal 4.2 in poi.

[2] In riferimento a: Nicholas Negroponte, Essere digitali, Sperling & Kupfer, Milano, 1995.

[3] Ravviso un atteggiamento di complessiva diffidenza in Livraghi (p.173): "I lavori atipici sono pertanto davvero prestazioni di lavoro innovative che rispondono alle esigenze di flessibilità espresse dalla domanda e dall'offerta di lavoro o non sono invece le vecchie modalità di frammentazione dell'occupazione chiamate e regolamentate in maniera diversa? In altri termini, le forme di lavoro atipico ampliano le possibilità di occupazione per alcuni segmenti della forza lavoro perché propongono modelli alternativi al lavoro «tradizionale» o al contrario il lavoro atipico, che di solito offre una minore sicurezza del posto di lavoro e della retribuzione, nonché condizioni di impiego meno soddisfacenti, comporta rischi reali di emarginazione nei mercati del lavoro per i lavoratori che ne sono coinvolti?" La negatività del giudizio che possiamo facilmente leggere in trasparenza non è assoluta condanna della flessibilità, ché altrove ne vengono ricordati i vantaggi anche per i lavoratori (pp.165-6, 175 e, citando documenti OCSE, 177). Fatto sta però che in questi giudizi lo standard di riferimento è il contratto di lavoro "tradizionale", vale a dire a tempo pieno ed indeterminato: torneremo su questo nella sezione 5.4.

[4] Si veda l'intervento del presidente del consiglio alla fiera del Levante (11 settembre 1999) e del presidente della Repubblica all'Aquila (23 settembre 1999), che su questo hanno raccolto un consenso assai ampio delle forze politiche (non universale però, cfr. l'intervista di Sarcina a Nesi). Cfr. anche Biffi e Camussone pp.107-8 e 110, e l'articolo di Antonella Trentin.

[5] "Entro il 2003, un terzo della forza lavoro USA accederà ai server di reti in modo remoto, e il 50% con connessioni commutate" (s.a., "Computerworld Italia", 14 giugno 1999).  Va però detto, in particolare per quanto riguarda l'Europa ed ancor più l'Italia, che: "In realtà, se è vero che molte delle attività dei KIW [knowledge information workers, cfr. ibidem p.56] che già oggi sono svolte presso l'azienda sono fin d'ora delocalizzabili è anche vero che motivazioni d'ordine psicologico, culturale, logistico ed economico oltre che rallentare il processo di diffusione del telelavoro (…) sono addirittura elementi che in molti casi non ne consentiranno proprio la sua realizzazione" (Biffi, L'impatto dell'ICT sull'occupazione, p.67; si veda poi fino p.70). Sulla situazione europea ed italiana si vedano le interviste di Goglio e il Rapporto sul telelavoro della Commissione Europea, riassunto nelle News in breve di "Computerworld Italia" del 5 luglio 1999: il numero dei telelavoratori italiani, passato da 100.000 nel '95 a 250.000 nel '98, è previsto arrivare a quota 700.000 (10 milioni nell'intera Europa) nel 2000.

[6] I costi ambientali caleranno per molti altri motivi, dalla conversione dal cartaceo al digitale del supporto informativo alle minori necessità di scorte fisiche di prodotto, derivanti dalla razionalizzazione negli ambiti produttivo e distributivo (cfr. Camussone p.38). Sul piano dell'organizzazione personale del tempo si considerino anche altre possibilità aperte dalla telematica, quali la videoconferenza e i servizi a distanza, che consentiranno ad esempio l'eliminazione di molte incombenze burocratiche e comodi acquisti da casa.

[7] Su questi punti vedi Lettieri e il contributo di Biffi e Camussone 1998, p.108.

[8] Su questo eloquente fin dal titolo l'articolo di Lettieri.



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