Andrea Furcht

Razzismo e statistica: osservazioni sul pregiudizio

Parte 2 di 10
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2 - Il taglio concettuale

Operazione preliminare a qualsiasi attività intellettuale è la concettualizzazione[1]. Senza una definizione, inoltre, i concetti non sono pienamente identificati e soprattutto interscambiabili. Sarebbe certo assurdo pretendere che in quest'ambito si faccia ricorso a definizioni operative vere e proprie, ché la vita quotidiana verrebbe paralizzata. Ma sarebbe bene disporre almeno di una definizione lessicale[2]. Finché si tratta di opinioni strettamente personali, la mancanza di questo passo implica solo un deficit di chiarezza nel mondo cognitivo interiore che è in certa misura inevitabile (per quanto riducibile e non auspicabile). Ma siccome i pregiudizi si comunicano[3], il fatto che normalmente manchi una definizione che dia oggettività al concetto aggiunge ulteriori elementi di confusione. Beninteso, chi ritenesse opera buona dare rigore scientifico al pregiudizio dovrebbe allora ricorrere a definizioni operative e alle altre severe procedure della scienza, il che ben difficilmente – per non dire mai – avviene (per un esempio, cfr. Montagu, pp.292-3)[4].

Questa fragilità, la difficoltà del taglio concettuale univocamente definito, è a dire il vero comune a quasi tutti gli aspetti del pensiero quotidiano. Ma in questo campo, che coinvolge i valori umani più profondi, nonché la reputazione ed i diritti degli altri, c'È da pensare si abbia il dovere di muoversi con la massima attenzione.

2.1 - L'individuazione dei gruppi

Il primo passo è quello della formazione del collettivo oggetto del pregiudizio. L'operazione logica del raggruppamento richiede l'applicazione di un fundamentum divisionis che ne individui gli appartenenti. Trovare criteri soddisfacenti non è facile come può sembrare, specie se si pretende essi si adattino perfettamente alle aspettative della nostra intuizione. In questo caso è frequente si mescolino al criterio-base, in grado di individuare univocamente la categoria, altri pseudo-criteri (che Allport chiama "attributi disturbanti" in contrapposizione agli "attributi essenziali", p.239[5]). Proprio i due gruppi più classicamente oggetto di discriminazione, i negri (specialmente quelli statunitensi) e gli ebrei, sono in realtà di definizione particolarmente difficile, specialmente dal punto di vista "razziale"[6] (un approccio che già pone grandi problemi, cfr. nota 15).

Viene inoltre spontaneo chiedersi quale sia il motivo per il quale i membri di uno stesso gruppo debbano avere una notevole omogeneità (rispetto almeno alla caratteristica in questione). Se il pregiudizio è fondato sull'appartenenza etnica, deve esservi trasmissibilità attraverso le generazioni. Le spiegazioni possono essere di due ordini: biologica[7] o culturale[8], presupponendo un certo grado di isolamento (si noti che neppure un isolamento completo garantirebbe in nessuno dei due casi l'immutabilità nel tempo delle caratteristiche[9]).

Dal punto di vista genetico va osservato che vi è un grado di polimorfismo estremamente elevato[10]; inoltre, molte caratteristiche non sono riconducibili con facilità all'eredità biologica (in particolare quelle morali o intellettive[11], che ci interessano maggiormente), che fornisce una predisposizione normalmente piuttosto generica[12]; infine, i geni interagiscono tra loro in modo spesso piuttosto complicato[13], e il meccanismo della meiosi con il crossing-over e soprattutto del concorso dei genitori nella formazione dell'assetto genico non garantisce di conservare le combinazioni migliori[14] (che sono tali, d'altronde, in relazione all'ambiente – cfr. nota 21). Concesso che quelle dei genitori (ambedue) siano bellissime, esse tenderanno a spezzettarsi e rimescolarsi nei figli (lo stesso vale per quelle sfavorevoli). è questo il punto scientificamente più debole del concetto classico di razza, sostanzialmente premendeliano (cfr. Montagu, pp.66-7 e 76-7, con ampie citazioni di Dobzhansky). Si noti anzi che la mancanza d'ibridazione, oltre che poco frequente nella specie umana, è normalmente anche dannosa[15]: a questo si deve lo sviluppo del complicato meccanismo della riproduzione sessuata.

2.2 - L'individuazione delle proprietà

Ora che abbiamo i gruppi dobbiamo trovare il carattere da attribuirvi. Anche prescindendo dai più generali problemi di concettualizzazione di cui sopra, restano comunque delle difficoltà specifiche.

Come è usuale nelle scienze sociali, la proprietà individuata potrebbe essere ad un tale livello di generalità da non prestarsi ad opera di misurazione; si è in questo caso costretti a trovare qualche sostituto più concreto: a questo scopo si costruiscono gli indicatori. Questo anche se la scelta non è sempre obbligata ed è comunque imperfetta, in quanto i diversi indicatori coprono solo una parte dell'estensione semantica del concetto più generale, e contengono normalmente anche una parte ad essa estranea.

Figura A - Il rapporto di indicazione (da Marradi p.40)

Si veda ad esempio la figura a, che riguarda però non semplici concetti, bensì variabili (che sono definite operativamente). Nel nostro caso non si può pretendere lo stesso rigore necessario alla ricerca scientifica: ma rimane sostanzialmente immutata l'esigenza di ricorrere ad un rapporto di indicazione per passare da un concetto assai generale ad altri più maneggevoli empiricamente[16].

Facciamo un esempio: se la proprietà fosse la "primitività", ci si potrebbe riferire a caratteristiche più osservabili, quali un basso QI, difficoltà di astrazione (rilevabili magari sperimentalmente), una modesta propensione ad intraprendere professioni intellettuali, persino (nel peggior stile del razzismo "scientifico") alcune caratteristiche fisiche[17].

Gli indicatori devono inoltre essere congruenti tra loro, altrimenti c'è da sospettare che peschino sistematicamente in un terreno diverso[18]. Possiamo aspettarci che ciò accada spesso nel caso del razzismo: un esempio estremo, ma non per questo infrequente, di difettosa concettualizzazione della proprietà è che essa può contenere aspetti autocontraddittori[19]: Allport (p.270) cita quanto rilevato in La personalità autoritaria, e cioè che le stesse persone tendevano ad accusare gli ebrei sia di intrusione che di isolazionismo[20]. è chiaro che l'interpretazione più ovvia di tale atteggiamento è che si tratti di una razionalizzazione (alquanto fragile logicamente) di una disposizione negativa a priori. Esempi come questo rafforzano la convinzione che molti pregiudizi prosperino nella vaghezza delle definizioni e, per di più, nell'estrema generalità dei concetti – che rende vano ogni abbozzo di controllo empirico.

Un'altra peculiarità accompagna di regola il pensiero stereotipato: l'incapacità di graduare l'ammontare della proprietà attribuita al gruppo[21]. Se tale incapacità è accentuata si arriva a formulare giudizi in termini di dicotomie; solo raramente queste rispecchiano effettive partizioni delle proprietà (il sesso, come classico esempio). In caso contrario, la dicotomizzazione si può considerare (tanto più quanto più sono gli stati possibili e in massimo grado se la proprietà è continua), come scrive veementemente Tufte[22], "la maniera più infame di censurare l'informazione".



[1] Allport (p.238, ma cfr. anche pp.27-32) usa di preferenza il termine "categorie" per i concetti e le definisce "un gruppo accessibile di idee associate che hanno la proprietà di dirigere il nostro adattamento quotidiano... In breve, una categoria è un'unità organizzativa che sta alla base delle operazioni cognitive". Perciò va considerato (Marradi, p.9) "che la capacità di formare e comunicare concetti sia, ancora più a monte, una condizione necessaria dell'esistenza di una vita associata, e della capacità dell'uomo di condurre la sua attività quotidiana nelle forme che conosciamo". Marradi continua identificando alcuni punti, dei quali i primi due sono: "A) Si concorda sul fatto che il concetto è un 'ritaglio' operato in un flusso di esperienze infinito in estensione e in profondità, e infinitamente mutevole. Il ritaglio si opera considerando globalmente un certo ambito di queste esperienze... B) La maniera in cui il ritaglio dev'essere di volta in volta operato non è dettata in forma cogente da qualità intrinseche delle nostre sensazioni (o dalle 'cose in sé' come pensavano i filosofi scolastici), ma dipende in larga misura dalle necessità pratiche di un certo individuo, gruppo, società, etc.". Per una più precisa applicazione al nostro caso cfr. Hamilton e Trolier, pp.128-9 e Vinacke in Miller (a), p.30.

[2] Cfr. Marradi, p.18.

[3] Sulla trasmissione culturale del pregiudizio, vedi ad esempio Dovidio e Gaertner (a), p.17, Hamilton e Trolier, p.127, Miller (a), pp.11 e 27, Jones, p.43 e Simpson e Yinger, pp.86 e 91-109. Colasanti – riferendosi a Freud, Adorno e specialmente Durkheim – parla di contagiosità, diffusività e trasmissività (p.39).

[4] Il tallone d'Achille della discriminazione è evidentemente un altro, di natura etica. Come scrive Dobzhansky (p.3): "Si confonde uguaglianza con identità e diversità con ineguaglianza. (...) L'insidia sta naturalmente nel fatto che l'uguaglianza umana ha a che fare con i diritti e con l'inviolabilità dell'esistenza di ogni essere umano, e non con caratteristiche corporee o anche mentali".

[5] Anche se a suo parere gli "attributi essenziali" non sono in realtà quelli logicamente fondanti la categoria, bensì quelli presenti "salvo eccezioni" (ovvero con una distribuzione a J, cfr. nota 54).

[6] Si vedano i capp.XIV e XV del Montagu. Cfr. anche Allport (pp.150-1, 166-75 e 184-6), e Cavalli-Sforza e Cavalli-Sforza, p.344.

[7] Per un approfondimento sul concetto di razza – ivi compresi i tentativi di razionale definizione basata sulle frequenze geniche e le molte difficoltà che vi sono legate, in particolare riguardo la specie umana – rimando a Bodmer e Cavalli-Sforza (II, pp.217-84 e III, pp.37-83), Cavalli-Sforza e Cavalli-Sforza, pp.331-64, Dobzhansky, pp.52-97 e Simpson e Yinger, pp.27-39; oltre che, naturalmente, a Montagu, che definisce tra l'altro "omelette" il vecchio concetto antropologico di razza. Può però forse bastare quanto scrive Cavalli-Sforza, lapidariamente, nel mezzo di un lungo capitolo dedicato alla questione: "La realtà è che nella specie umana il concetto di razza non serve a nulla" (p.344).

[8] Possiamo includere qui i fattori di ordine più generalmente ambientale.

[9] Perfino la trasmissione genetica è soggetta, anche a prescindere dagli apporti esterni, alle mutazioni spontanee – canalizzate poi sistematicamente dalla pressione selettiva ed erraticamente dalla deriva genetica.

[10] L'eterogeneità interna ai gruppi è maggiore di quella tra i gruppi, tranne che per i caratteri che più appariscentemente individuano le razze (Montagu, pp.95-6 e 111). Categorico a questo proposito è Cavalli-Sforza (Cavalli-Sforza e Cavalli-Sforza, p.333): "Per quasi tutti i caratteri ereditari osservati troviamo che le differenze tra singoli individui sono più importanti di quelle che si vedono fra i gruppi razziali. Molto di rado avviene quel che siamo abituati a vedere per il colore della pelle, che tutti gli individui della razza A sono decisamente scuri e tutti quelli della razza B sono chiari". Ed ecco perché (p.185): "Siamo pochissimo diversi. Abituati a notare le differenze tra pelle bianca e pelle nera o tra le varie strutture facciali siamo portati a credere che debbano esistere grandi differenze tra europei, africani, asiatici e così via. La realtà è che i geni responsabili di queste differenze visibili sono quelli cambiati in risposta al clima. Tutti coloro che oggi vivono ai tropici o nell'Artico devono – nel corso dell'evoluzione – essersi adattati alle condizioni locali; non è tollerata troppa variazione individuale per i caratteri che controllano la nostra capacità di sopravvivere nell'ambiente che abitiamo. Dobbiamo anche tenere a mente un'altra necessità: i geni che rispondono al clima influenzano caratteri esterni del corpo, perché l'adattamento al clima richiede soprattutto modifiche della superficie del corpo (che è la nostra interfaccia con il mondo esterno). Appunto perché esterne, queste differenze razziali catturano in modo prepotente il nostro occhio, e automaticamente pensiamo che differenze della stessa entità esistano anche per tutto il resto della costituzione genetica. Ma questo non è vero: siamo poco diversi per il resto della nostra costituzione genetica" (il corsivo dell'autore è in tondo). Esemplificazioni di tali adattamenti al clima si trovano a pp.24-8 e 145-6, e poi in Bodmer e Cavalli-Sforza, III, pp.60-8 e in Montagu, pp.89-90 e 91-2. Vedi inoltre Allport, p.149, Bodmer e Cavalli-Sforza, III, pp.68-71, Cavalli-Sforza e Cavalli-Sforza, pp.36 e 344-5 e Dobzhansky p.33; ed anche Ruffié e Sournia (pp.23-33), che scrivono (p.31): "In un gruppo monomorfo, in cui gli individui presenterebbero tutti lo stesso patrimonio genetico e formerebbero in un certo senso una popolazione di 'veri' gemelli ma appartenente ad entrambi i sessi, ogni individuo avrebbe gli stessi gusti, gli stessi atteggiamenti, le stesse tendenze dei suoi vicini; tutti cercherebbero la stessa ubicazione, lo stesso alimento, lo stesso partner sessuale ... Sarebbero attivi alla stessa ora del giorno, nella stessa stagione dell'anno. La nicchia ecologica sarebbe straordinariamente ridotta e sovrappopolata; nel suo interno regnerebbe una competizione severa e pregiudizievole all'insieme". Ecco quindi che è concepibile un vantaggio selettivo per i gruppi differenziati geneticamente al proprio interno.

[11] Vedi Allport, pp.150 e 154-5, Cavalli-Sforza e Cavalli-Sforza, p.300 e Montagu, per es. pp.15-6, 27 (ove è citato Darwin), 84-5, 98 ed il cap.V; in Bodmer e Cavalli-Sforza, III, pp.80-1 è scritto: "Non siamo in grado, con le tecniche attuali, di individuare differenze di comportamento tra razze che possono, seriamente, venir considerate genetiche" (elementi di genetica del comportamento nel vol..II, pp.286-314) Tra i tanti pareri autorevoli propensi a considerare una natura umana sostanzialmente omogenea attraverso i popoli (e anche le epoche) vorrei ricordare quella di Hume: "Vorreste conoscere i sentimenti, le inclinazioni e il modo di vivere dei greci e dei romani? Studiate bene il temperamento e le azioni dei francesi e degli inglesi; non potete ingannarvi molto nel trasferire ai primi la maggior parte delle osservazioni che avete fatto riguardo ai secondi. L'umanità è tanto la stessa, in tutti i tempi ed in tutti i luoghi, che la storia non ci informa di nulla di nuovo o di insolito a questo proposito" (Ricerca sull'intelletto umano, p.89).

[12] "Ciò che realmente i geni determinano sono gli spettri di reazioni presentati rispetto all'intera gamma degli ambienti possibili da individui con un numero maggiore o minore di geni simili. (...) Geni simili possono avere effetti diversi in ambienti dissimili, e così pure geni differenti in ambienti analoghi" Dobzhansky, p.8; vedi anche Benso, Bodmer e Cavalli-Sforza, II, pp.227-30, M.Harris, pp.54-5, Montagu, pp.104, 107 e 110 e Simpson e Yinger, pp.39 e 71.

[13] "È improbabile che l'aggregazione attitudinale, poniamo, dei musicisti possa essere costituita da membri tutti omozigosi per lo stesso gene preposto alla musica, ammesso che un simile gene esista. La base genetica del talento musicale è presumibilmente una costellazione di parecchi geni e, forse, di geni differenti in persone diverse" (Dobzhansky, p.47). Sempre Dobzhansky rileva ancora, a questo proposito: "A questo punto dovremmo ricordarci di un fatto fondamentale della genetica che troppo spesso viene ignorato. La costituzione fisica e quella mentale di un individuo sono prodotti emergenti e non una mera somma di effetti indipendenti dei suoi geni. I geni interagiscono tanto tra loro, quanto con l'ambiente. Un gene B può accrescere una certa qualità gradita in associazione a un altro gene A1, ma può non avere effetto o averne di sfavorevoli con un gene A2. Tali effetti non additivi (epistatici) possono essere fattori determinanti dell'intelligenza, della personalità, di speciali capacità e di altre caratteristiche mentali. Per questo motivo, e anche a causa della regressione verso la media, non è affatto raro che genitori dotati di talento diano vita a qualche rampollo mediocre, e viceversa". Sui sistemi poligenici vedi Bodmer e Cavalli-Sforza, II, pp.219-52.

[14] Anche per questa via si realizza il "ben noto fenomeno genetico della regressione verso la media: la progenie di genitori sopra la media di popolazione non raggiunge ordinariamente i valori parentali, che vengono invece in generale superati dai figli di genitori sotto la media di popolazione. La regressione verso la media si osserva con tutti i tipi di caratteristiche, quali la statura e le proporzioni corporee, e è perfettamente naturale riscontrarla con i QI" (Dobzhansky, p.15). Proprio alla circostanza che normalmente da genitori molto (o molto poco) dotati discendano figli più vicini alla media si deve l'uso del termine "regressione" per indicare la nota tecnica di analisi statistica (vedi Bodmer e Cavalli-Sforza, II, pp.257-8 e Wonnacott e Wonnacott, pp.358-9).

[15] Cfr. Bodmer e Cavalli-Sforza, II, pp.144-61, Cavalli-Sforza e Cavalli-Sforza, pp.345-6, Montagu, cap.IX e Simpson e Yinger, p.34.

[16] Scendendo così lungo la "scala di astrazione" (cfr. ad es. Marradi, pp.14-17).

[17] Detto per inciso, molte di tali caratteristiche prestano il fianco a critiche di vario genere, prima delle quali quella di essere probabilmente collegate a determinanti assai diverse (quali la povertà dell'ambiente di origine) ed a criteri di valutazione "etnocentrici".

[18] Marradi, pp.40-1.

[19] Se riteniamo invece si tratti dell'attribuzione al gruppo di due proprietà tra loro contrastanti, possiamo collocare quest'errore nella fase di raccordo tra gruppo e proprietà. Questo non è ad ogni modo necessario, dato che due o più proprietà vengono facilmente ricondotte nel pensiero aprioristico ad una essenza di gruppo (cfr. sez.5), per la quale le proprietà a più basso livello di astrazione possono fungere da indicatori.

[20] Per altri esempi vedi Montagu, p.158.

[21] Vedi per es. Jones, pp.49-50. Allport (p.243) interpreta questo fatto in termini di residuo di atteggiamento infantile (cfr. p.186 per una conferma sperimentale). Si veda anche la nota 44.

[22] Citato in Marradi, p.60, che evidenzia altre gravi conseguenze metodologiche. Vedi anche Blalock, pp.117-8 e Simpson e Yinger, p.85.

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