Andrea Furcht

Alcune relazioni tra crisi economica e immigrazione dai paesi in via di sviluppo

Parte 2 di 6


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1. Recessione ed immigrazione

La forte valenza psicologica del termine "crisi" rischia di far velo al significato. Vi è stata infatti coincidenza tra diversi fenomeni, che si sono intrecciati tra di loro; concentreremo maggiormente l'attenzione sulla prima accezione, ma senza prescindere dalle altre - tenuto conto dell'importanza che tutti questi aspetti ricoprono, ed anche della stretta connessione tra di essi:

*   anzitutto una congiuntura economica mondiale di carattere recessivo, caratterizzata quindi da un indebolimento della domanda aggregata di beni e di servizi - cui fa riscontro un rallentamento della produzione e l'accentuarsi delle difficoltà occupazionali[1]. Il sistema italiano però, grazie ad una serie di forti svalutazioni dal settembre 1992 - scevre peraltro di conseguenze inflazionistiche - era riuscito guadagnare in competitività sui mercati internazionali;

*   in secondo luogo, una fase di turbolenza politica interna - apertasi parallelamente a quella monetaria - che è parzialmente ascrivibile alla rottura del sistema geopolitico planetario;

*   quale punto di comunicazione tra queste due instabilità, la crisi delle finanze pubbliche . Ad agire da ghiandola pineale tra il mondo della produzione e quello della gestione politica sono in particolare il tasso di interesse reale e la pressione fiscale (con tutti i problemi inerenti alla sua poco equa ripartizione), ambedue tenuti elevati nel tentativo di tamponare il deficit pubblico;

*   bisogna infine accennare all'endemica situazione di disagio sociale: molti cittadini si sentono insufficientemente tutelati di fronte ai profondi cambiamenti nelle caratteristiche del mercato del lavoro e alla prospettiva di drastiche riduzioni nel campo del Welfare, di fronte ad una criminalità avvertita come crescente così come nei confronti dell'insufficiente qualità di molti servizi pubblici. Questo, in presenza di costi fiscali assai elevati - che hanno relazione assai più con obbligazioni finanziarie pregresse e con diffuse inefficienze che non con il livello del servizio offerto.

1.1 Composizione dell'immigrazione

Per cogliere i riflessi della congiuntura economica bisogna tenere conto delle cause delle migrazioni; a questo scopo si rivela utile la dicotomia fattori d'attrazione/fattori d'espulsione. Con una crisi i primi sono destinati ad affievolirsi, a causa sia di una maggiore pressione dell'offerta locale sul mercato del lavoro, che dell'indebolimento della domanda di beni e servizi.

Le spinte all'emigrazione che operano nei paesi d'origine potrebbero invece venire rafforzate:

*   in primo luogo dall'accentuarsi della pressione esercitata sul mercato del lavoro dagli ingressi nella popolazione attiva; un'altissima fecondità, pur declinante nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo (PVS d'ora in avanti), ha ormai modellato delle strutture per età assai giovani. Si prevede dunque che per molto tempo ancora la disoccupazione, già molto elevata, crescerà ulteriormente[2]; ciò varrà in particolare nelle fasce d'età (20-30 anni) più propense all'emigrazione. Contrariamente al luogo comune in merito, nell'eventualità si inneschi un processo di sviluppo, il problema dovrebbe addirittura aggravarsi[3].

*   in secondo luogo, dalle conseguenze della recessione internazionale, che può colpire anche i PVS. Da una parte è pensabile che i periodi di vacche magre portino con sé una diminuzione dei contributi allo sviluppo versati dai paesi avanzati (PSA) e degli investimenti privati; dall'altra, può venire ridimensionato anche l'export dei paesi meno industrializzati, in proporzione all'integrazione di questi nel circuito economico mondiale. è comunque possibile che proprio questa situazione forzi sul mercato mondiale la concorrenza delle merci sul piano del prezzo: vi sarebbe allora un forte incentivo al trasferimento in alcuni dei PVS di produzioni (sta succedendo perfino con alcuni servizi) altrimenti troppo costose.

Le considerazioni sulle forze di espulsione possono sembrare del tutto accademiche, dato che a livello planetario l'offerta di lavoro è comunque ampiamente eccedente rispetto alla domanda[4]. Non bisogna però venire contagiati dalla cecità insita nell'approccio economico (come probabilmente in qualsiasi approccio) quando inteso troppo rigidamente: quanto sopra affermato vale appunto per il lavoro, non per progetti migratori disperati, improntati alla ricerca di una qualsiasi maniera di migliorare la propria condizione. Questi non necessitano infatti di specifici fattori di attrazione, dal momento che l'essenziale è abbandonare il proprio paese, analogamente a quanto a fortiori accade ai profughi razziali, politici o di guerra. Vi sono oltretutto dei fattori pull estranei al mercato del lavoro, quali l'accesso ad un migliore standard di assistenza e servizi, od anche prospettive di proventi illeciti (esaminate al 2.4); è chiaro che questi, contrariamente ai fattori di attrazione legati alla sfera della produzione, non implicano in linea di massima un vantaggio per il paese di accoglienza[5].

È dunque probabile che la combinazione tra una spinta all'emigrazione maggiore, o anche solamente invariata, ed una restrizione degli sbocchi lavorativi, porti ad una scrematura delle componenti produttive dei flussi a favore di quelle meno desiderabili dal punto di vista del paese di destinazione[6]- oltre che ad una possibile maggiore tensione sul mercato del lavoro, nonostante sia probabile un decremento globale dell'immigrazione.

1.2 Deficit pubblico e politiche di stabilizzazione

La rarefazione delle disponibilità finanziarie pubbliche implica una sottrazione di risorse altrimenti destinabili alla prima accoglienza, alle misure di controllo ed a politiche di più ampio respiro quali quella della casa, dell'insegnamento della lingua italiana, della formazione professionale, della scolarizzazione dei minori. Si rischia così non solo di ostacolare gli interventi urgenti a favore degli immigrati più disagiati, ma anche la formazione di un ceto medio di provenienza PVS che potrebbe fungere da trait d'union tra immigrati e nativi, e quindi da volano per un inserimento socialmente equilibrato di fasce di popolazione straniera.

Non si vuole con ciò affermare che ogni tipo di intervento pubblico sia da accogliersi con favore: anzi, una disponibilità di fondi ampia e poco controllata può generare forme di malversazione anche in questo campo. Inoltre vi è il problema dell'effetto-richiamo delle politiche di accoglienza, che devono pertanto accompagnarsi ad una seria politica di gestione degli ingressi.

1.3 L'immagine degli immigrati

Un'eventuale minore incidenza dell'immigrazione "buona", cui si accennava all' 1.1, può nuocere anche da questo punto di vista. Vi sono in realtà da registrare due concomitanti circostanze favorevoli: anzitutto, l'immagine può comunque risentire positivamente del progredire socioeconomico degli arrivi più antichi (salvo un possibile risentimento in chi si sente scavalcato in termini di status); in secondo luogo, il probabile calo assoluto dell'afflusso può far diminuire l'allarme sociale verso gli stranieri.

L'immigrazione produttiva e ben inserita è d'altra parte la meno visibile. Questo induce a pensare che il fattore decisivo non sarà l'incidenza della porzione deviante sul totale dell'immigrazione (una frazione che il nativo ha difficoltà a valutare, dato che l'ammontare del denominatore è così sfuggente); piuttosto, il livello assoluto di tale porzione deviante, il numero e la qualità degli atti socialmente deplorati commessi, e la trasmissione che di questi verrà fatta da parte dei mezzi comunicazione[7].

Per di più, le incerte prospettive economiche, il malessere sociale, e la fragilità dell'assetto politico avevano contribuito[8] (e in parte ancora contribuiscono) ad aumentare il timore per il futuro nella popolazione nativa. Vi sono frange che possono trovare negli immigrati dai PVS dei comodi capri espiatori, al di là dei problemi sociali effettivamente creati (o acuiti) da una parte di queste presenze[9]. Una consapevole gestione di ingressi e soggiorni può forse lenire le tensioni, e soprattutto evitare un sotterraneo quanto insidioso consenso (anche di minoranza) verso il violento estremismo di pochi. Un estremismo, sia chiaro, che ha anche altre origini e che va comunque affrontato direttamente e con mano assai ferma. Per questioni di principio, oltre che di opportunità.

1.4 Un raffronto con la crisi del 1973

Viene spontaneo raffrontare gli effetti della congiuntura che ha seguito la guerra del Golfo con quelli dell'ultima grande crisi, lo shock petrolifero degli anni Settanta. Per quanto specificamente riguarda le politiche migratorie di quasi tutti i paesi europei allora importatori di manodopera, quella crisi con le sue gravi difficoltà occupazionali portò ad una svolta, segnando un sostanziale stop a nuovi ingressi (cfr. ad es. Tapinos e Turci 1986 e Melotti 1989). Possiamo aspettarci che questo si ripeta adesso nei paesi dell'Europa meridionale?

La coscienza delle insidie dei procedimenti per analogia storica consiglia prudenza: limitiamoci dunque a porre in rilievo cinque importanti differenze, concernenti il mercato del lavoro, la provenienza dei flussi, il ciclo economico, le conseguenze politiche e le prospettive demografiche:

*   il settore secondario aveva un grande rilievo nell'economia dei paesi di destinazione[10]. Alcune analisi (forse ottimistiche) mettono l'accento sull'inquadramento della manodopera immigrata nell'industria - per quanto almeno riguarda l'Italia settentrionale. Certo, può trattarsi di un tentativo di superare le strozzature dell'offerta di lavoro poco qualificato, anche di ottenere a minor prezzo quello più qualificato. è però lecito chiedersi quali siano le prospettive dell'industria nei PSA di fronte ad un'aggressiva concorrenza internazionale; ciò in particolare per quanto riguarda le produzioni più mature da un punto di vista tecnologico, che dovrebbero essere le più permeabili agli ingressi di manodopera a basso livello di specializzazione;

*   i PVS, anche se non i più poveri tra essi, sono oggi assai più rappresentati tra i paesi di emigrazione. In questo ventennio il sistema economico mondiale si è allargato, senza che ciò portasse peraltro elementi di riequilibrio - mentre sono andati aggravandosi problemi strutturali quali la sovrappopolazione mondiale e il depauperamento ambientale;

*   il 1973 fu lo spartiacque tra un lungo periodo di espansione, coincidente in sostanza con l'intero secondo dopoguerra, ed un'onda lunga di crisi (cfr. ad es. Rosier 1989); è su questo ciclo lungo che si è innestata la recente fase acuta di recessione, che potrebbe averne segnato l'acme. La situazione sociale ed economica in molte delle società di arrivo è quindi oggi più preoccupante che allora; si aggiunga poi che alcune aree allora di esodo - in particolare il Mezzogiorno italiano - sono entrate con tutti i propri problemi nel novero di quelle di accoglienza;

*   le difficoltà economiche hanno molto contribuito a determinare una crisi di consenso di dimensione europea verso il sistema politico, generalmente accusato di scarsa efficienza, o di scarsa capacità di garanzia nei confronti delle fasce più deboli; l'Italia ha costituito, in particolare nel periodo di Mani Pulite, un caso particolarmente eclatante;

*   nel 1973 il baby-boom era ancora abbastanza fresco, e non si intravedevano ancora le conseguenze del crollo della fecondità (del quale il nostro paese è un esempio estremo), in particolare quelle sulla dinamica della popolazione attiva[11]. Da questo punto di vista vi sarebbe una potenzialità crescente di spazio per immigrazioni in età giovanile.

Trovo questi elementi molto significativi. Il modello di inserimento degli immigrati nella fase di decollo industriale, entrato in crisi proprio con lo shock petrolifero, si basava[12] sui tre pilastri della grande fabbrica[13], del Welfare State[14] e di una composizione migratoria relativamente omogenea alla popolazione delle aree di accoglienza. Oggi sono invece i fattori di espulsione a prevalere, rispetto a quelli di attrazione - centrali fino agli anni Settanta.

È comunque un fatto che l'immigrazione fuori dall'industria, a prescindere dall'importante opera di socializzazione svolta da quest'ultima, sia più difficilmente regolarizzabile e in generale meno controllabile. Questo lo si avverte in particolare in società, come la nostra, con una spiccata vocazione all'irregolarità.

In secondo luogo, la provenienza di molti immigrati dai PVS - con la conseguente maggiore distanza etnica e culturale rispetto alle migrazioni degli anni del decollo industriale - potrebbe rivelarsi foriera di ulteriori difficoltà di inserimento. Vi è d'altronde un legame molto stretto tra origine dei migranti (in particolare secondo la dicotomia PVS/PSA) e tendenza all'(auto)sfruttamento, con complesse conseguenze in termini sia di dumping sociale che di occasioni di mobilità verticale dei lavoratori nativi.

Si è inoltre messo in rilievo come aree allora di emigrazione siano ora di accoglienza, e ciò vale in particolare per il Mezzogiorno italiano.Questo ha comportato diversi problemi nella gestione dell'immigrazione straniera; in particolare:

A.  la mancanza di familiarità col fenomeno, rispetto ai paesi industriali dell'Europa centro-settentrionale;

B.   l'affiorare ricorrente di suggestioni emotive dovute alla tradizione di emigrazione;

C.  la compresenza nelle regioni più povere di nuova immigrazione e vaste sacche di disagio (disoccupazione in particolare) nella popolazione autoctona; è in queste aree che la posizione della manodopera straniera è più sostitutiva che altrove.

Queste circostanze, unite alla tradizionale avversione politica ad una programmazione razionale, fanno sì che l'Italia manchi di una strategia migratoria - sostituita da una sorta di oscillazione tra demagogie aperturiste ed occasionale polso duro condito magari da un po' di inganno (come fu particolarmente evidente nella prima fase dell'immigrazione albanese).

Negli anni Settanta, infine, le aspettative erano più rosee ed il quadro complessivo - sia internazionale che interno, in quasi tutte le nazioni - assai più solido, nonostante (o forse proprio grazie a) la guerra fredda. Ora è invece il momento delle incertezze geopolitiche, e di quelle economiche - legate non solo alla dinamica dei cicli, ma anche a sviluppi strutturali che paiono sfavorevoli da un punto di vista sociale. Questo accentua il pericolo cui si faceva cenno in precedenza, che gruppi particolarmente disagiati o minacciati possano divenire inclini all'intolleranza verso i nuovi arrivati, sentiti come concorrenti o anche solo come facile obiettivo di rivalsa.

1.5 Effetti economici delle immigrazioni

L'analisi fin qui svolta sarebbe decisamente unilaterale se non rovesciassimo almeno brevemente il nostro approccio, considerando l'impatto economico delle migrazioni sull'economia ospitante. Possiamo distinguere due piani:

a)   su quello demografico-strutturale l'innesto di fasce giovani di popolazione può essere visto come un antidoto al declino e soprattutto all'invecchiamento della popolazione italiana, caratterizzata da anni dalla fecondità più bassa del mondo. Una cura radicale rischia però di essere più dannosa del male, dato che per raggiungere la stazionarietà demografica stabilizzando la popolazione sui livelli del 1991 occorrerebbero dosi da cavallo (quasi 400.000 immigrati/anno per sempre, secondo i calcoli di Gesano[15]) che la rendono evidentemente improponibile;

b)   anche dal punto di vista macroeconomico-congiunturale, è probabile che una quota aggiuntiva di popolazione possa giovare, specialmente in fase di recessione. Le controindicazioni (cfr. Furcht 1989) infatti si attenuano, mentre l'incremento della domanda di beni e servizi, dovuto al puro aumento del numero dei consumatori, può contribuire a ridare tono all'economia grazie anche al meccanismo keynesiano del moltiplicatore. La domanda indotta dall'immigrazione può essere di due tipi:

*   domanda da parte di privati, determinata cioè dai consumi degli immigrati stessi (cui possono aggiungersi le associazioni private di assistenza). è però probabile che, almeno nelle fasi iniziali del ciclo migratorio, si tratti di una domanda pro-capite assai debole; questo non solo per il modesto ammontare del reddito solitamente percepito, ma anche per la bassa propensione al consumo[16];

*   domanda da parte dello stato per le politiche di accoglienza ed inserimento (si potrebbero anche contare i costi per il controllo delle frontiere, in aggiunta od in detrazione a seconda delle alternative di riferimento[17]). Dal punto di vista forse angusto della finanza pubblica, in particolare in riferimento alla situazione del nostro paese, si tratta di una componente nociva, visto che è proprio il deficit statale a rappresentare uno dei maggiori problemi per il paese. Certo, l'esiguità delle somme in questione dona a questa disquisizione un sapore prettamente accademico.

Nutro però delle perplessità di fondo sull'opportunità di limitarsi ad un approccio globale alla questione delle conseguenze dell'immigrazione (cfr. Furcht 1990 e 1994). Da tali perplessità prende le mosse la seconda parte di questo intervento.



[1] Tralasciamo la grande questione della possibile trasformazione strutturale del mercato del lavoro verso forme più flessibili, e complessivamente meno rilevanti, di occupazione.

[2] Cfr. ad esempio Bruni-Di Francia 1990, Golini-Righi-Bonifazi 1991 e Bonifazi-Gesano 1994, pp. 267 e 281-2.

[3] Teitelbaum scrive (pp. 296-7): "Il paradosso fondamentale delle tesi che imperniano la politica di immigrazione sullo sviluppo risiede nella contraddizione tra gli effetti attesi da tale sviluppo a lungo termine, e quelli a breve termine (per lungo termine intendiamo un arco di più generazioni, ad esempio vari decenni; per breve termine intendiamo lo spazio di un decennio o due). A lungo termine, è piuttosto evidente che un rapido sviluppo economico nel Terzo Mondo finirebbe per ridurre, nel presente ed in prospettiva, le pressioni che favoriscono l'emigrazione. (...) Tuttavia, la contraddizione interna risiede nel fatto che un considerevole e rapido sviluppo economico comporta cambiamenti profondamente destabilizzanti delle società in via di sviluppo. Nella fase iniziale, molte di esse rafforzano la spinta all'emigrazione, invece di moderarla. (...) Di conseguenza a breve termine, che in questa sede indica un periodo tra i 10 e i 20 anni, lo sviluppo economico potrebbe avere come effetti di promuovere ed accelerare l'emigrazione.". Si veda anche Garonna 1993, p.40.

[4] Come rileva Straubhaar (pp. 457-8): "Finché la quantità dei disoccupati disposti ad emigrare è maggiore, o almeno uguale, alla quantità di forza lavoro straniera che i paesi d'immigrazione sono disposti ad accettare, gli attuali flussi di manodopera saranno indipendenti dalle variazioni dell'offerta di persone disposte ad emigrare". Certo, sarebbe semplificatorio contrapporre semplicemente domanda ed offerta di lavoro a livello mondiale, senza almeno menzionare:

*   le interrelazioni tra domanda e propensione all'offerta (cfr. ad es. Salvatore 1993 e Bruni 1988);

*   il fatto che non tutto l'eccesso di offerta sui mercati nazionali del lavoro sia necessariamente pronto a trasformarsi in migrazione effettiva, anche a prescindere dalle restrizioni poste dai paesi d'arrivo (vedi su questo l'analisi dei concetti di "potenziale migratorio" e "propensione all'emigrazione" in Bruni-Venturini 1992).

Tenere conto di questi elementi non inficierebbe però la sostanza del discorso di Straubhaar, almeno da un punto di vista strettamente economico.

[5] Giudizi di portata così generale non hanno però una sufficiente capacità di discriminazione (cfr. parte 2).

[6] Cotesta scrive (p.109): "Se la crisi economica mette in discussione le certezze economiche acquisite finora, questo esito verso la domanda di una maggiore e migliore integrazione nella società italiana viene compromesso o del tutto annullato. Si stabilizzano dunque le condizioni negative e i lavoratori immigrati sono costretti ad accettare passivamente sia le forme più dure di sfruttamento economico, sia i conflitti nei quali sono perdenti. Una ulteriore uscita da questa grave situazione di crisi è l'aumento della loro precarietà e, con questa, l'aumento della propensione ad entrare nella illegalità". Una precoce conferma empirica di queste difficoltà si trova in Capecchi 1993, che pure si occupa della regione italiana ove l'inserimento è stato uno dei più promettenti. Egli rileva in primo luogo la diminuzione delle presenze regolari a livello nazionale (gli altri dati citati saranno invece tutti relativi all' Emilia-Romagna) - le presenze di cittadini extra-CEE passano infatti da 896.966 alla fine del 1991 a 778.459 a fine 1992. Rimarchevole anche il decremento nelle iscrizioni al collocamento, da 10.000 in media nel 1990 a 8.200 nel 1991 e 6.900 nel 1992. A questo proposito osserva (p.X): "Questa tendenza non significa necessariamente una riduzione dei flussi migratori perché è aumentata la presenza, anche in Emilia-Romagna, di immigrati ed immigrate che non hanno i permessi di soggiorno perché appena arrivati, oppure perché non hanno avuto il rinnovo di permessi di soggiorno già concessi (...)".

Ancora più significativo ai nostri fini quello che troviamo nel paragrafo Peggioramento nelle possibilità di trovare lavoro da parte di persone immigrate: anzitutto sono diminuiti in assoluto gli avviamenti al lavoro di extracomunitari (18.200 nel 1990, 16.600 nel 1991 e 14.200 nel 1992), con un decremento del 22% molto vicino al 21% complessivo; nella provincia di Bologna, però, ove maggiori sono le difficoltà occupazionali, vi è un trend negativo specifico: gli avviamenti al lavoro di extracomunitari cadono dai 2.700 del primo semestre 1991 ai 1.500 dell'ultimo del 1992. E soprattutto (pp. XI-XII): "La maggiore difficoltà di trovare lavoro da parte di persone immigrate è visibile da questo dato: mentre nel primo semestre del 1992 gli avviamenti extra-comunitari rispetto al totale degli avviamenti erano il 50% (l'80% degli avviamenti maschili ed il 18% di quelli femminili) nel secondo semestre del 1992 gli avviamenti di persone immigrate sono il 39% del totale degli avviamenti (il 64% degli avviamenti maschili e il 14% di quelli femminili)". Seguono poi alcune considerazioni sul Rallentamento nella tendenza alla stabilizzazione delle persone immigrate, desunta da dati quali quelli relativi alle richieste di ricongiungimento familiare e di iscrizioni scolastiche di minori stranieri. Si legge a questo proposito (p.XIII): "Innanzi tutto le maggiori difficoltà nel trovare lavoro sono state utilizzate per rendere più forte il blocco non solo alle nuove immigrazioni, ma al rinnovo dei permessi di lavoro, con la conseguenza di avere percentuali in espansione di lavoro irregolare e di persone immigrate in cerca di lavoro (...)".

[7] Cfr. Furcht 1996.

[8] Cfr. nota Errore. Il segnalibro non è definito.

[9] Riporto a questo proposito un'interessante ipotesi di Guido Ortona: "Consideriamo ora quegli strati della popolazione, che non coincidono con quelli che tradizionalmente vengono definiti "sottoproletariato", ma che qui denoteremo per semplicità con tale termine, che a) vivono in condizioni di grave disagio, b) costituiscono un gruppo visibile agli occhi dei suoi membri e c) non dispongono del potere di mercato necessario a contrattare una modifica della loro condizione. Questi strati di popolazione non possono contrattare per la soluzione dei loro problemi, ma dato che incorrono in un costo molto basso nel caso assumano comportamenti devianti dispongono di un potere di ricatto nei confronti del resto della collettività: essi possono cioè assumere vari tipi di comportamento anomico come strumento di pressione. L'aggressività xenofoba è un tipo di comportamento particolarmente adatto a questo scopo, per vari motivi: è facilmente giustificabile sul piano ideale (...); implica l'esistenza di un nemico facilmente individuabile, e quindi consente forme specifiche di mobilitazione; va contro i valori più consolidati dello stato/nemico, e quindi può apparire altamente efficace"(pp. 399-400).

[10]Vedi ad esempio Venturini 1989, pp. 71-4.

[11] L'analisi di flusso (Bruni 1988) mostra come sia le entrate nella popolazione attiva (15-69 anni) sia il turn-over generazionale (entrate meno uscite per ragioni di età) fossero in crescita fino al quinquennio 1976-81. Anzi, se aggiungiamo il notevole calo nel numero assoluto dei decessi (che si affianca a quello, meno appariscente in proporzione ma anch'esso significativo, delle uscite generazionali) verificatosi nel quinquennio successivo, vediamo che anche nel 1981-86 la popolazione attiva aumentò, pur senza tenere conto del saldo migratorio che da allora è stato componente fondamentale delle entrate. Riporto di seguito i dati elaborati da Bruni (ho messo in evidenza il movimento naturale della popolazione lavorativa, inserendone anche il saldo):

Per ulteriori approfondimenti si veda Bonifazi 1991.

[12] Si vedano, anche per quanto affermato nel resto del sottoparagrafo, Tapinos e Turci 1986, Melotti 1993 e Melchionda 1993 (che mette in rilievo come allora l'emigrazione fosse sentita quale una risorsa dai cittadini del paese di immigrazione).

[13] Vedi anche Bruni, Capecchi e Reyneri 1992, pp.65-6, e Bonifazi-Gesano 1994, p.279.

[14] Va registrata però anche un'interessante ipotesi di Keyfitz, espressa in una discussione seminariale nell'ambito del convegno Mass Migration in Europe (Vienna, 5-7 marzo 1992): il sistema assistenziale pubblico sarebbe la principale causa di ostilità nei confronti dell'immigrazione povera da parte della popolazione nativa, che avverte la prospettiva di dovere sopportare i costi dell'accoglienza. Si avrebbe allora il paradosso (meccanismo consueto nelle scienze sociali) che ciò che viene costruito per solidarietà si trasformi in fonte di conflitto.

[15] Gesano 1994. Vedi anche Bonifazi e Gesano p.268, che richiamano Livi Bacci.

[16] Quale conseguenza degli accantonamenti destinati alle rimesse da inviare al proprio paese - si tratta evidentemente di una forma di riequilibrio economico a favore dei PVS. Si noti che in generale i redditi molto bassi sono invece forzatamente caratterizzati da un'alta propensione al consumo.

[17] Se si volesse comparare il costo che uno Stato sopporta a causa dell'immigrazione rispetto ad una teorica alternativa "assenza del problema", si devono considerare congiuntamente i costi per l'accoglienza e quelli per il controllo delle frontiere. Sarebbe invece l'opposto se il confronto fosse tra una politica di apertura ed una di chiusura totali.




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