Andrea Furcht

Referendum sulla procreazione assistita: quattro Sì (uno sofferto)





 

La legge 40 ha tutto per disgustare un "laico" (nel linguaggio politico corrente, chi condivide gli ideali derivati dall'illuminismo): dal tradizionalismo morale all'avversione alla ricerca, dall'impianto proibizionistico all'accento ideologico, se non addirittura dogmatico[1]. Di qui la mia preferenza per l'abrogazione totale, o perlomeno la più larga possibile. Logica conseguenza di tale premessa sarebbe: votare quattro Sì, senza esitazione.

Il voto non è però un'arma da brandire, bensì un atto di responsabilità da esercitare per quanto possibile con ponderazione; in particolare nel caso dei referendum, nei quali le questioni di contenuto hanno preminenza assoluta, occorre non lasciarsi travolgere da riflessi di schieramento.

 

Veniamo al punto: uno dei quesiti non mi convince pienamente. Sarei seriamente tentato di votare (ripeto: "votare", ritirando quindi la scheda) astenuto, fermi restando gli altri tre Sì; senonché il medesimo quesito è diretto anche all'abrogazione della disposizione più odiosamente stupida della legge (vale a dire il divieto di diagnosi pre-impianto[2]).

Questo intervento contiene anche qualche altra considerazione[3] nel merito di un dibattito su argomenti difficili, che sta finalmente decollando in tutto il paese.

§1 – Un sì all'eterologa

Normalmente chi ha riserve su uno solo dei referendum, si pone il problema della fecondazione eterologa: ci si appella in questo caso al diritto del nascituro a conoscere i genitori biologici. Sorvoliamo sul fatto che pare che una proporzione assai elevata di concepiti "naturalmente" non siano figli del padre ufficiale (il che ridimensiona una supposta contronaturalità, accusa ritenuta chissà perché grave, di questo tipo di fecondazione); mi pare comunque che venire al mondo – accolti in una coppia di solito più motivata di quelle naturali – possa essere una compensazione più che sufficiente per non poter conoscere il padre biologico. In quanto poi ai sostenitori duri e puri della legge, non capisco come tale posizione si concili con l'assunto "la genitorialità non è una questione biologica", assai popolare quando si tratta di svalutare il processo della fecondazione assistita rispetto all'alternativa (magari poco realistica) dell'adozione. Da un punto di vista strettamente evolutivo, anzi, c'È da ammettere che il tornaconto[4] dal punto di vista della promozione del proprio patrimonio genetico è più quello del genitore ad avere prole biologicamente propria, che non quello del figlio ad venire allevato da coloro dai quali ha tratto i propri cromosomi – perlomeno a parità di cure.

§2 – I diritti del concepito

Nutro invece qualche perplessità su una parte del quesito nº3, più precisamente quello che riguarda l'abrogazione del passo "assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito"; so che i laici ritengono importante cancellarlo anche per non aprire la strada ad una revisione della legge sull'aborto.

Concordo sul fatto che mettere sullo stesso piano un embrione appena concepito ed un essere vivente pienamente sviluppato sia un equivoco foriero di tragiche conseguenze: ma dove possiamo porre il limite da cui far iniziare i diritti dell'individuo[5]? A parte il fatto che gli approcci basati sui diritti sono spesso sterilmente ideologici, purtroppo la realtà biologica non aiuta a porre confini netti: ma il fatto che ci si trovi dinanzi ad un fenomeno progressivo non deve forzatamente portarci ad abbandonare ogni distinzione. Il criterio che preferisco (vedi nota 8) è quello della capacità di provare sofferenza, che deriva anzitutto dalla sensibilità al dolore, sulla quale interviene poi (in modo secondo Engelhardt decisivo) l'elaborazione cosciente[6]. Ma qui è bene applicare un principio prudenziale: mi pare quindi sensato far coincidere questo momento con lo sviluppo del sistema nervoso. Trovo invece errato insistere, come fa l'altrimenti condivisibile opuscolo "Io voto quattro volte sì"[7], sul fatto che secondo la Costituzione la capacità giuridica (e con essa i diritti) si acquisisca alla nascita: un feto in stato di sviluppo avanzato è già simile ad un neonato – tra l'altro, le conquiste della pediatria permettono oggi di far sopravvivere con esiti sempre più soddisfacenti anche nati estremamente prematuri. Anzi, se la regola per soppesare interessi contrastanti di individui diversi[8] deve essere quella della felicità attesa nel futuro[9], l'elevata speranza di vita raggiunta ad un certo punto della gravidanza rende estremamente rilevante il diritto di chi non è ancora nato[10].

§3 – Perché la legge 40

Veniamo ora alle motivazioni valoriali, magari non del tutto consce, che hanno portato all'approvazione della legge: aldilà di possibili interessate condiscendenze di molti politici alla Chiesa – e ancor più, ad un frainteso voto cattolico (probabilmente assai più moderno di coloro che credono di interpretarlo), si è anzitutto trattato di un riflesso di paura nei confronti del progresso della conoscenza, e non di amore per la vita. A favore della vita, casomai, è la fecondazione assistita, che permette ad altri nostri simili di raggiungerci su questa terra. Certo, si tratta di tecniche che possono portare alla morte del nascituro: ma questo succede anche nelle gravidanze tradizionali, nelle quali la probabilità di sopravvivenza per un embrione appena fecondato è molto scarsa. Anche qui, una scommessa più che accettabile; mettendoci nei panni di chi viene generato con fecondazione assistita, accetteremmo noi un'alta probabilità di morte senza coscienza (tanto meno sofferenza) contro la possibilità di vivere, piuttosto che rimanere confinati nel nulla? La distinzione tra "morte" e "nulla", in queste condizioni, mi pare piuttosto accademica[11].

 

Mi pare dunque che il vero motore dell'ostilità al "Far-west della provetta", come viene chiamato dai promotori della legge 40, sia il terrore ancestrale verso il progresso scientifico, il timore di varcare la soglia, sia essa presidiata da Dio o dalla Natura, che l'umanità arrogante non dovrebbe mai oltrepassare. Quest'atteggiamento è sì profondamente insito nella nostra psiche, ma al tempo stesso, al pari di molti riflessi primitivi, è dannoso. Non è grazie al pensiero magico che abbiamo migliorato la nostra condizione, sconfiggendo la morte che – fino a non troppo tempo fa – si portava via la metà dei nati entro l'infanzia (era quindi normale assistere alla morte di metà dei figli, e metà dei fratelli). Sono stati invece i passi successivi, che hanno spesso dovuto infrangere tabù radicati, a giovare all'umanità: la spiegazione prima razionale e poi empirica in luogo di quella dettata dalla superstizione, lo sviluppo dello studio dell'anatomia a costo della dissezione dei cadaveri, la chirurgia, la commistione con umori animali indotta dal vaccino, la pratica rivoluzionaria dei trapianti, l'apertura infine dello scrigno proibito della genetica. Per fortuna Prometeo, grazie al diffondersi della razionale benevolenza propria dell'atteggiamento illuminista, rischia oggi meno nell'aiutarci ad impadronirci dei segreti degli dei. Ma non è un buon motivo per tradirlo disertando le urne.

Andrea Furcht
www.furcht.it/andrea



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[1] Un accento quindi posto sulle affermazioni di principio piuttosto che sulla valutazione delle conseguenze effettive delle scelte che sono in discussione.

[2] Ancora meno intelligente della disposizione, se possibile, l'argomentazione basata sul rifiuto dell'eugenetica. Quando il nostro istinto sessuale ci porta a preferire un partner ad altri, non stiamo scegliendo anche (e probabilmente soprattutto) il DNA che vogliamo mescolare al nostro? Un corollario per l'eterologa: da quanto detto discende che non ci sia nulla di male – a prescindere dalle questioni di privacy – a voler conoscere, e scegliere, le caratteristiche genetiche del donatore.

[3] Premesse e approfondimenti sono esposti in modo più circostanziato in: Alcuni contributi della demografia all'indagine biologica ed alla riflessione etica. In Rivista Italiana di Economia, Demografia e Statistica, vol. LIII nº 3, luglio-settembre 1999 (http://www.furcht.it/b-scb.htm), in particolare nei parr.§2.1 e §2.3.

[4] Un tornaconto che tuttavia non necessariamente si traduce in comportamenti od emozioni.

[5] Mi scuso, ma preferisco questo termine poco amato all'abusato "persona", magari "umana". Attenzione però alle parole che si utilizzano: sotto una vernice attraente potrebbero nascondersi insidie concettuali. Come ci ricorda infatti Engelhardt, p.126: "… non è necessario che tutte le persone siano esseri umani. L'arcangelo Gabriele che appare a Maometto nel deserto, ed E.T. che attraversa una moderna città americana del ventesimo secolo costituiscono esempi di entità che sono persone, anche se chiaramente non sono esseri umani. Ciò che caratterizza le persone è la loro capacità di essere autocoscienti, razionali, e interessate al merito di biasimo ed elogio. (…) D'altra parte, non tutti gli esseri umani sono persone" (Hugo Tristram ENGELHARDT, jr.. Manuale di bioetica – Introduzione di Umberto Veronesi, Arnoldo Mondadori, Milano, 1991. Ed.or.: The Foundation of Bioethics. Oxford University Press, New York, 1986).

[6] "È estremamente improbabile che i feti, con i loro lobi frontali non completamente sviluppati né completamente connessi, siano in grado di provare sofferenza, anche se sono in grado di provare dolore. La sofferenza richiede il riconoscimento del dolore come qualcosa di minaccioso, di negativo, da evitare. La sofferenza richiede qualcosa di più di una semplice proprietà dolorosa. Richiede un riconoscimento di quella proprietà, di quella sensazione, come qualcosa di sbagliato, di dannoso e di nocivo. è discutibile se i feti all'inizio della gestazione provino anche solo dolore" (ibidem, p.251).

[7] http://www.lucacoscioni.it/?q=node/2002.

[8] Valutando quindi le conseguenze di linee d'azione alternative.

[9] Un criterio quindi coerente con l'obiettivo etico tipico dell'utilitarismo, rendere massimo il benessere universale.

[10] Naturalmente possono valere anche altre considerazioni, che fanno pendere il piatto della bilancia più dalla parte dei già nati: tra essi la rete di affetti e conoscenze, che impreziosisce la vita di un adulto tramite i suoi riflessi sulla felicità altrui (funziona però al contrario per chi è detestato); una più compiuta coscienza di sé, che rende più acute le sensazioni di felicità od infelicità, e la cui mancanza toglie per contro (presumibilmente) sofferenza alla morte dell'embrione. In ogni caso non dobbiamo farci condizionare dallo spirito corporativo (tra adulti, in questo caso)  che non è mai un buon consigliere morale, né tra nazioni, né per sesso, né infine tra le specie viventi.

[11] Sempre che l'obiettivo sia l'utilità (altro termine impopolare, come quello che segue; se si ama la demagogia verbale questo si può sostituire con "felicità" o "benessere", il successivo con "persona") dell'individuo, in questo caso l'embrione. Diversa la questione se il centro del nostro interesse  È la sacralità della vita, come nel caso di molte religioni: conta allora assai più l'applicazione del principio "non uccidere", inteso non come norma a tutela degli altri, bensì come atto di obbedienza a un essere superiore.