Andrea Furcht

Demografia, occupazione, delinquenza, terrorismo: terzomondismo e luoghi comuni sull'immigrazione

Parte 3 di 8




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§2 Welfare e mercato del lavoro

 

§2.1 Il mercato del lavoro

Un timore condiviso nei confronti degli immigrati è quello che "rubino lavoro" (cfr. per es. il Dossier 2000 della Caritas, pp.204-9[103], e la ricerca della Fondazione Nord Est, p.2, secondo la quale per il 32,3% degli italiani "gli immigrati costituiscono una minaccia per l'occupazione").

In realtà, così come è difficile parlare di un "interesse nazionale" monolitico, è problematico isolare un effetto univoco conseguente all'immigrazione: vi sono diverse categorie di immigrati e soprattutto di nativi (lavoratori, disoccupati, imprenditori, consumatori)[104]. Un mercato del lavoro segmentato riserva agli stranieri provenienti dai paesi poveri soprattutto le mansioni più dequalificate: da un lato c'è concorrenza con parte dei lavoratori autoctoni (che potrebbero però avere maggiori occasioni di mobilità ascendente), dall'altro un effetto complementare nei confronti dei lavoratori dotati di maggior capitale umano, dei quali cresce la produttività. Un'immigrazione di lavoratori va comunque a vantaggio di imprese[105] e consumatori – diverso naturalmente il caso di un afflusso di individui destinati a vivere di espedienti[106].

Garonna ci ricorda che, contrariamente a quanto di solito viene affermato, l'eventuale spiazzamento di manodopera autoctona sarebbe positivo dal punto di vista economico (vale a dire, non dimentichiamolo, del benessere collettivo), in quanto si eleverebbe l'efficienza produttiva[107].

 

§2.2 Il ruolo dello Stato sociale

Si ritiene che un effetto delle politiche di Welfare sia quello di prevenire le tensioni sociali, comprese manifestazioni a livello individuale quali la criminalità. Analogamente, le politiche di accoglimento, mirate a facilitare l'inserimento e prevenire l'esclusione sociale dei nuovi arrivati, hanno anche lo scopo di disinnescare i motivi di attrito tra immigrati e nativi. è però possibile che le politiche di tutela sociale abbiano gravi controindicazioni nel caso dell'immigrazione, rivelandosi un boomerang. La presenza di un sistema di Welfare, infatti:

1.      costituisce un ulteriore fattore di richiamo[108] in un contesto nel quale le migrazioni già sono più dipendenti dai fattori di espulsione che da quelli di attrazione[109];

2.      va poi segnalato il pericolo di sprechi e corruzione, presente non solo nel Welfare pubblico[110], ma anche nelle iniziative private di carattere sociale (quello che Sacco chiama lo strano "indotto" dell'immigrazione – cfr. nota 328);

3.      a parere di molti osservatori, in particolare degli economisti liberisti, costituisce una via maestra per la distruzione di ricchezza, non solo per via della corruzione cui si accennava (che ne rappresenta una pur diffusa patologia)[111];

4.      rischia di dar luogo a conflitti di interesse (reali, o anche solo percepiti) con gli autoctoni: i contribuenti saranno convinti – magari fondatamente – di dover subire una maggiore pressione fiscale per sostenere i nuovi arrivati, e i beneficiari delle politiche di tutela sociale potrebbero temere di dover spartire con essi risorse scarse. Molto pericolose a questo proposito le politiche di discriminazione positiva[112], che fanno scattare l'aspro risentimento di chi si sente scavalcato[113]; sugli effetti perversi di tali politiche si vedano De Nicola 2004 e soprattutto Sartori 2000a, cap.II,4; in particolare è significativo il passo di p.75: "Le discriminazioni creano sfavoriti che protestano e chiedono contro-favori, oppure favoriti non accettati e addirittura rifiutati dalla loro comunità. Alla fine si arriva, per entrambi i rispetti, alla guerra di tutti contro tutti. A che pro? A pro di chi? Giro la domanda a chi di competenza"[114] – cfr. anche nota 376; la questione degli interessi dei gruppi, e della loro relazione con la xenofobia, è trattata diffusamente nel bel testo di Ortona.

 

§2.3 Aiutiamoli a casa loro

È questa una formula frequente (cfr. nota 94; in Padovani 2003 si menziona "la filosofia di "aiutare i popoli a casa loro" impostata dalla Umanitaria Padana Onlus", presente a Nassiriya), che ha il pregio si salvare la capra dell'avversione all'immigrazione e i cavoli della coscienza in pace; si tratta sicuramente di uno dei cavalli di battaglia – un po' ipocrita – degli anti-immigrazionisti[115] (cfr. nota 60).

Si aprono a questo punto tre problemi[116].

Il primo è: quale forma di aiuto? Inorridisco (in buona compagnia[117]) all'idea che tali aiuti siano controllati, come in passato, dai regimi tirannici e soprattutto corrotti che reggono la grandissima maggioranza dei paesi poveri. A proposito di questo, e più specificamente della riduzione del debito, leggiamo quanto scrive Ugo Tramballi in occasione della conferenza ONU sul razzismo di Durban: "La Nigeria è il promotore di un risarcimento economico per il colonialismo. Nel 1990 Moshood Aiola quantificò la cifra: 25 miliardi di dollari, parte dei quali avrebbero dovuto essere dedotti dal debito africano. L'anno scorso, quando la banca mondiale ha ridotto una parte di quello nigeriano, a Lagos hanno costruito uno stadio da 380 milioni di dollari" (cfr. anche Theroux). Il pericolo maggiore, oltretutto, non sono nè gli sprechi nè la corruzione, bensì di finanziare corsa ad armamenti e terrorismo[118].

Veniamo ora al secondo: le migrazioni non sono affatto l'unica forma di aggiustamento economico. Se la montagna non va a Maometto, Maometto va alla montagna (spero di non attirarmi una fatwa ostile): ricordo che esiste anche la delocalizzazione delle imprese o di parte di esse (si pensi a quelle venete in Romania); tra le forme di riequilibrio alternative alle migrazioni vi sono naturalmente anche il libero movimento di merci e capitali, che avvantaggia le imprese rese più efficienti da una internazionalizzazione ben progettata[119] a scapito di quelle concorrenti. Inoltre, la produzione è sempre meno legata alla presenza fisica del lavoratore – conosciamo già molti esempi di telelavoro svolto in paesi in via di sviluppo per conto di imprese situate in quelli avanzati (cfr. Furcht 1999a, p.122). O la vogliamo chiamare "immigrazione virtuale"?

Infine il terzo, diretta conseguenza del precedente: siamo proprio sicuri che, qualora si verificasse realmente il decollo produttivo di alcune aree oggi economicamente arretrate, chi temeva la concorrenza della manodopera straniera nel proprio paese abbia poi tanto da rallegrarsi? Dopo decenni di litanie su quanto la povertà del terzo mondo fosse colpa di noi ricchi, e sull'imperativo morale di sacrificarci per i più poveri, siamo arrivati al dunque: le nazioni più grandi del terzo mondo stanno per affrancarsi dal loro destino, e non con la questua o la violenza, ma con il lavoro e l'ingegno. Ma la risposta all'ascesa cinese[120] è il panico.

Oltretutto, non è affatto detto che lo sviluppo economico abbatta l'emigrazione[121]; questo senza contare gli effetti geopolitici perversi che l'arricchimento improvviso di cricche tiranniche e aggressive può comportare (se ne parlerà al §3.3).

Naturalmente esiste la tentazione del protezionismo commerciale[122] (esattamente l'opposto dell'"aiutiamoli a casa loro"), palese nel caso della politica agricola europea (che Kohlhammer con mirabile sintesi definisce "costosa idiozia")[123]; questo può anche esercitarsi anche in forme sottili: dove finisce, ad esempio, la meritevole tutela del consumatore nel controllo della qualità dei prodotti, di particolare rilievo in settori come quello alimentare (noi europei non dobbiamo tuttavia dimenticare di essere i responsabili della "mucca pazza" e di altri orrori), e dove inizia il desiderio di ostacolare le importazioni[124]? un discorso analogo può farsi per la difesa dell'ambiente, e per le condizioni di lavoro[125]; per quanto sia sgradevole parlarne in questi termini, questo potrebbe succedere anche nel caso del lavoro minorile, che sposa un'ammirevole battaglia di principio con la tutela delle condizioni di lavoro nei paesi avanzati (da questo punto di vista, buona parte dell'import di merci dai PVS rappresenta una sorta di dumping sociale[126]). La battaglia contro lo sfruttamento dei bambini nella produzione, senza dubbio condivisibile nelle intenzioni, presenta infatti alcuni punti oscuri:

1.      non si sottolinea a sufficienza come il vero male siano miseria e arretratezza: il lavoro minorile non ne rappresenta che un'espressione;

2.      come mai la denuncia dello sfruttamento dei minori non si unisce ad una lotta contro la fecondità eccessiva, dato che è questa una delle radici del fenomeno? Non solo la pressione demografica sul mercato del lavoro, abbassando i salari tende sul medio-lungo periodo a perpetuare la miseria (cfr. nota 124), ma vi sono anche a effetti più specifici: ove vi è povertà unita ad alta fecondità, i figli rappresentano infatti una fonte di reddito da far fruttare al più presto (non è in ogni caso possibile per una famiglia senza mezzi fare studiare molti bambini). Solo le nostre società, grazie alla loro ricchezza combinata alla scelta della qualità in luogo della quantità[127], hanno potuto permettersi il lusso di considerare in figli non più un investimento, bensì un bene di consumo (cfr. Becker p.37 e 40) pur dovendo limitarne il numero, scambiando nei fatti quantità per qualità[128]. è inoltre facile prevedere che laddove la fecondità è eccessiva, e per conseguenza i bambini rappresentano una parte preponderante della popolazione, essi vengano anche meno rispettati[129]; per converso, dove la mortalità è elevata, è probabile venga dato meno valore alla vita[130];

3.      occorre comunque ricordarsi che anche il nostro sviluppo è iniziato tra simili durezze: "in quello stesso anno [il 1848] una legge francese, approvata sull'onda dei moti popolari, fissò in 12 ore il limite della giornata lavorativa per chi avesse meno di 16 e più di 12 anni"[131] (dall'articolo di Padoa-Schioppa, del 26 agosto 2001; cfr. anche la nota 70); se il lavoro minorile non è stata una premessa imprescindibile – per quanto dolorosa – della modernizzazione economica, possiamo perlomeno pensare fosse difficilmente evitabile in una società contenente ancora molti elementi arcaici[132], tra i quali in particolare un'alta fecondità;

4.      come possiamo conciliare il rifiuto del lavoro minorile con il rigetto politically correct nei confronti dell'eurocentrismo (ove il prefisso "euro" può indicare anche i nuovi mondi figli dell'Europa, in particolare quelli anglosassoni), così chiaramente enunciato nel Dossier Immigrazione della Caritas anno 2000 (cfr. nota 60), e puntualmente criticato da Panebianco (2001)? il lavoro dei bambini, così come spesso la subordinazione delle donne, è componente essenziale delle società preindustriali;

perchè non ci si preoccupa altrettanto vivamente di quali possibilità siano di fronte a questi giovani[133], e anche di quali sarebbero gli effetti di un eventuale boicottaggio? se non si vuole siano costretti a lavorare occorre anche vengano costruite scuole, soprattutto di avviamento professionale, oltre che perseguire la diminuzione della dimensione delle famiglie; l'impressione è poi – e questo acuisce il sospetto che si tratti di una battaglia di fatto interessata – che il lavoro minorile che suscita scandalo non sia quello impiegato nei settori tradizionali: in altre parole, che si tenda a colpire quello legato alle esportazioni, mentre nessuna attenzione va allo sfruttamento dell'infanzia nell'artigianato o nelle attività agricole.



[103] Vedi anche il Dossier 2003, scheda di sintesi compresa.

[104] Per l'analisi è molto più fecondo distinguere l'impatto per categoria di immigrazione e di nativo, si vedano Furcht 1990 e 1994.

[105] Il fatto che normalmente il mondo imprenditoriale auspichi maggiore afflusso migratorio autorizza alcuni a pensare che persino "la destra" più avveduta non sia contraria all'immigrazione, posizione questa che sarebbe dunque esclusiva dei settori più retrivi. Non è necessariamente così: gli imprenditori, come tutti (se ci sono eccezioni sono benvenute, ma non dobbiamo pretenderlo), perseguono di regola il proprio interesse senza curarsi di eventuali esternalità negative (Ronchey si esprime in termini di "economicismo interessato alla disponibilità di manodopera", 2004b; cfr. anche 2003b, menzionato su questo anche in nota 32), esattamente come nel caso delle produzioni inquinanti; non è del resto compito loro preoccuparsene, bensì della legge accollarle a chi le causa, facendo coincidere gli interessi individuali con quello che si ritiene sia il benessere generale.

[106] Si vedano ancora Furcht 1990 e 1994.

[107] Trascuriamo qui gli effetti distorsivi che l'immigrazione di lavoro poco qualificato ed irregolare può avere nei riguardi del progresso tecnico e dell'evasione fiscale e contributiva (su questo si veda Dell'Aringa e Neri).

[108] Anzitutto direttamente, per il più elevato standard di servizi che caratterizza il paese d'accoglienza, rischiando oltretutto di selezionare negativamente le entrate (vedi ad es. l'art. di Naim sulle assai migliori performance socio-economiche degli arabi negli Stati Uniti). Ma vi sono anche effetti indiretti: ad esempio i sussidi di disoccupazione – anche impropri, quali la presenza, a fini che di fatto sono assistenziali, di un vasto settore pubblico – tendono a far calare l'offerta di lavoro nei settori meno ambiti dai lavoratori, contribuendo così a causare così quella segmentazione del mercato del lavoro cui si accennava al §2.1. In altri e più diretti termini, troppa gente è mantenuta a spese della collettività per lavorare poco e/o male, creando tra l'altro lacune nell'offerta di lavoro produttivo (circostanza questa che è argomento-principe degli immigrazionisti): si vedano Sartori 2000a, p.96, e più diffusamente Iraci Fedeli 1990, cap.I; una circostanziata accusa sulla proliferazione della burocrazia parassitaria, soprattutto da un punto psicosociale, in De Marchi 2000. Si veda il punto 2 del presente elenco.

[109] Anche se molti autori (in bibliografia ho incluso Ambrosini e un articolo di Diamanti) tendono a mettere in luce questi ultimi.

[110] Per esempio gli immigrati possono percepire i sussidi per i parenti anziani facendo loro prendere la residenza e rimandandoli poi segretamente nel paese d'origine.

[111] Come pianamente spiega Daniel Gros, intervistato da Peruzzi: "Se l'economia Ue non cresce ai ritmi americani è perchè gli stati assorbono troppe risorse, impedendo la formazione di capitali disponibili ad essere investiti"; Bavarez, allievo di Aron (e si vede – voce forse isolata nel contesto francese) dà la ricetta per il rilancio dell'economia: "Basta smetterla con la beatificazione dello stato-sociale che produce disoccupazione di massa e deficit pubblico e di continuare a credere che liberismo e innovazione siano incompatibili con la solidarietà e il benessere di tutti" (Nava 2005b). Si noti che quest'ultima proposizione è accettata in molti ambienti di sinistra, in particolare in quelli più consapevoli dei meccanismi economici – così ad esempio Salvati, proprio sullo stesso numero di CorriereEconomia: "Penso che un insieme di riforme (…) vadano a vantaggio dei consumatori e dei ceti più modesti; da cui il fatto, apparentemente sorprendente ma in realtà non più di tanto, che una persona di vecchio orientamento socialista come me possa essere anche un convinto liberale" (in Stringa 2005). Cfr. anche Romano 2005c e nota 107.

[112] Per non parlare poi dell'impunità giudiziaria se questa diventasse de jure oltre che, come spesso accade, de facto (si veda la nota 155).

[113] Cfr. ad esempio Palombelli 2005.

[114] Un altro inconveniente di queste politiche, forse il più importante in linea di principio, è che normalmente assegnano la priorità alle esigenze dei gruppi rispetto a quelle del benessere generale. Quando tali provvedimenti riguardano l'occupazione di posti di lavoro pubblici, per esempio, è chiaro che lo si considera un privilegio da assegnare, piuttosto che una funzione, per quanto retribuita, da svolgere a beneficio degli utenti. Cosa succede, poi? "Ajai Dixit appartiene all'immensa corporazione dei Babu, la burocrazia indiana, quindi di servizi pubblici se ne intende. (…) il suo primo avvertimento è qusto: "Se vi ammalate, prima di farvi visitare in un ospedale di Stato chiamatemi, controllerò il cognome del medico. Se è un Dalit non ci si può fidare. Può avere avuto quel posto non per merito, ma per riempire le quote riservate agli intoccabili"" (Rampini 2003a).

[115] Non solo loro, però – si veda Iraci Fedeli 2000, p.83.

[116] Prescindendo dal dubbio preliminare: "Abbiamo diritto di condizionare le società del terzo mondo col fatto stesso di aiutarle?"; i miei dubbi sono a dire il vero di tutt'altro genere, ma pur non condividendo i presupposti antisviluppisti ed etnolatrici di tali posizioni, è giusto menzionare chi dà una riposta negativa già a questo punto. Comincio da Rinaldi, che scrive: "La rottura del paradigma dello sviluppo fissa questo primo punto: non è detto che lo sviluppo tecnologico implichi uno sviluppo sociale e culturale. Questo è un qualcosa di assolutamente rivoluzionario rispetto al modo che comunemente si ha di concepire la vita ed è qualcosa che mette in discussione il nostro stesso approccio al problema del sottosviluppo perchè se non è vero, come gli antropologi sostengono, che lo sviluppo tecnologico implica lo sviluppo culturale, allora non è vero specularmente che il sottosviluppo sia uguale al sottosviluppo sociale e culturale. Nell'idea di sviluppo è però implicita un'altra tendenza che è la tendenza all'esportazione della nostra visione delle cose, cioè siccome noi ci consideriamo comunque i più sviluppati tecnologicamente, culturalmente, socialmente e moralmente ci sentiamo in dovere di esportare il nostro sviluppo oltre frontiera verso coloro che sono sottosviluppati. Anche nelle menti più pure dei cooperanti o dei volontari questo dato è difficilmente discutibile, nel senso che è dato per scontato che noi dobbiamo andare a portare sviluppo, gli antropologi dicono che questo non deve essere dato per scontato, nel senso che nessuno ci ha chiamati, nessuno tra le persone che sono state negli ultimi 20 anni a fare cooperazione allo sviluppo nei paesi del terzo mondo in realtà è stato chiamato a fare cooperazione allo sviluppo, ci è andato perchè un movimento di pensiero, un movimento culturale all'interno della sua società l'ha spinto in quella direzione. è difficilmente dimostrabile che nelle società del terzo mondo ci sia stata una richiesta di cooperanti, di volontari o di personale del O.N.U. affinchè fossero sviluppati dei progetti. Di fatto è un movimento che è nato e cresciuto all'interno della nostra società che volenti o nolenti è stato imposto, questo deve essere chiarito perchè altrimenti sembra che noi andiamo a fare progetti di sviluppo perchè siamo stati chiamati.
Siamo chiamati in realtà solo ed esclusivamente dalla nostra cultura dello sviluppo e la nostra cultura dello sviluppo in realtà cozza con una cultura dello sviluppo che è diversa. Diversa nel senso che noi partiamo dal presupposto che comunque è un bene che ci sia una accumulazione materiale, è un bene che ci sia un progresso tecnologico e ci ritroviamo ogni volta che andiamo a fare progetti di cooperazione di fronte al fatto che molte società in maniera esplicita od un maniera tacita rifiutano questo tipo di atteggiamento. Il fallimento di molti progetti di sviluppo in realtà non è altro che questo, è il rifiuto nostro approccio allo sviluppo. C'è un mito, tutte le società dal punto di vista antropologico si fondano su dei miti elaborati in forma semplice o complessa, in forma religiosa o secolarizzata, però tutte le società si reggono su di un mito culturale, il concetto dello sviluppo si fonda sul mito del progresso, sull'idea che l'evoluzione tecnologica costituisca un bene di per se, un valore morale. Oggi questo viene messo fortemente in discussione non solamente dalle persone che alla luce dell'esperienza operativa nel terzo mondo arrivano a mettere in discussione questa idea, ma è messa in discussione anche da tutta una serie di approcci teorici di antropologi, di coloro che si avvicinano ecologicamente al problema dello sviluppo, da una serie di docenti universitari. L'idea dell'eco-sviluppo contiene questa critica fondamentale al mito del progresso
".

Da presupposti differenti si esprime consonantemente Fini (Perchè non bisogna aiutare l'Africa, in Il conformista; posizione ribadita nell'incontro dell'ottobre 2004): "Il problema non è infatti se gli aiuti vadano a vantaggio di questo o quel regime, di questo o quel dittatore [ci arriviamo tra poco], il problema è più profondo e più semplice: non bisogna aiutare l'Africa. Non per cinismo o indifferenza, al contrario. C'è infatti il fondato sospetto che l'Africa stesse molto meglio prima, quando si aiutava da sola. Mi ricordo che quando, un anno e mezzo fa [l'articolo originario è del 17 gennaio 1987], partecipando a Milano a un pranzo organizzato dalla "Cooperazione per lo sviluppo" (che si occupa, appunto, di aiuti al terzo mondo e, in particolare, all'Africa), avanzai tale sospetto, mi aspettavo che questa mia provocazione cadesse fra il gelo dei presenti. Invece, con mia grande sorpresa, essa ebbe, più o meno, lo stesso effetto liberatorio che provoca Fantozzi quando, dopo anni di sevizie culturali, osa urlare al microfono che "La corazzata Potëmkin è una boiata tremenda"". In generale queste argomentazioni prescindono dagli effetti della sovrappopolazione – non però Rinaldi, che affronta apertamente questo nodo, pur indulgendo ad una visione per altri aspetti idilliaca delle società tradizionali: "È stato dimostrato che quasi tutte quelle società, anche quelle in sistemi ecologici particolarmente difficili erano in grado di produrre eccedenze agricole; la fame era una eccezione nelle economie tradizionali, di fatto il sistema di reciprocità e le tecniche impiegate, sia di produzione che di controllo demografico (caratteristico per tutte le società, può apparire brutale ma l'infanticidio era molto diffuso, soprattutto delle bambine), esisteva una stabilità tra la pressione demografica e le risorse reperibili".

[117] Si legga la chiusura dell'intervento di Sylos Labini: "Da evitare come la peste, in quanto fonti di corruzione e di sprechi, gli aiuti puramente finanziari". O Peres, tranchant: "Modernizzare produce democrazia. Più che i sussidi finanziari servono strutture per costruire un' autonomia economica. Bisogna evitare che gli aiuti, spesso raccolti tra i poveri dei Paesi ricchi, finiscano ai ricchi dei Paesi poveri"" (in Coppola e Ferrari, 2004). Iraci Fedeli, dopo aver notato (1990, p.103) che "non ci sono vie facili per risolvere problemi difficili, e quelle che poterono sembrare scorciatoie, come gli aiuti esteri, dovevano rivelarsi un rimedio peggiore del male" annota che tali aiuti spesso "si risolvono in una riduzione netta della capacità di sviluppo" (p.112). Kohlhammer presenta una tesi originale, forse malevola, ma convincente: "Alle attuali condizioni internazionali e nazionali è possibile approfittare della condizione di sottosviluppo (…) Avere a disposizione la povertà e i profughi, le guerre civili e le carestie, i produttori di sostanze stupefacenti e gli analfabeti,le epidemie e le foreste tropicali minacciate, può costituire un mezzo di pressione e di ricatto decisivo nell'ambito della lotta concorrenziale per gli stanziamenti bi- e multilaterali destinati agli aiuti e allo sviluppo. (…) Eliminare il sottosviluppo in tutte le sue forme significherebbe anche doversi separare da somme miliardarie. In altre parole: in numerosi Pvs esistono potenti èlites politiche, economiche e militari che hanno un interesse notevole al mantenimento e al finanziamento estero della condizione attuale del sottosviluppo, del tutto indipendentemente dalle loro alleanze politiche o dalle ideologie. Utilizzano soprattutto l'Onu e le sue organizzazioni per propagare la loro ideologia terzomondista, per attribuire al primo Mondo la responsabilità di tutta la miseria e per rivendicare, in modo deciso, il rispetto degli stessi valori universali che essi, in maniera sovrana, trascurano nei propri paesi. (…) Il fatto che maggiori aiuti allo sviluppo significhino automaticamente più sviluppo appare evidente. Ma è sbagliato. (..) Esistono, anzi, buone ragioni per ritenere che questi ultimi nuocciano allo sviluppo più di quanto non lo favoriscano. (…) Andrebbero chiamati "sostegni al governo". (…) L'identificazione fra governo e popolazione è errata. (…) Gli aiuti allo sviluppo, secondo il criterio del reddito pro capite, premiano una politica dell'impoverimento " (pp.783-5).

Nel 2005 il Live8 di Geldof concentra l'attenzione sul tema; si alza quindi qualche voce autorevole in dissenso dall'ingenua approssimazione del solidarismo rock (ferocemente criticato a qualche mese di distanza anche da Theroux). Tra queste, quella dell'economista svedese Erixon: "… questo è l'attacco finora più forte alla Rock Star Economics , quel complesso di teorie rese popolari da musicisti e attori che sostengono la necessità di raddoppiare subito gli aiuti ai Paesi più poveri. "Gli economisti-rock star vedono il mondo attraverso occhiali rosa - sostiene Julian Morris, direttore dell'International Policy Network (Ipn), l'istituto britannico che ha pubblicato l'analisi -. La loro convinzione che gli aiuti vadano a beneficiare i poveri è mal posta. La realtà è che gli aiuti premiano il fallimento e rafforzano regimi che diversamente sarebbero stati fatti fuori". I dati portati da Erixon mostrano che via via che gli aiuti all'Africa aumentavano dal 5% del Pil continentale (1970) al 18% (1995), la crescita del Pil pro-capite crollava dal 15-17% a negativa; per riprendere a metà Anni Novanta quando gli aiuti sono tornati a calare. Lo studio sostiene che se i governi occidentali facessero come richiesto da Jeffrey Sachs, l'economista che ha studiato la strategia Onu per eradicare la povertà, e come proposto dal primo ministro britannico Tony Blair, cioè se aumentassero gli aiuti all'Africa di 25 miliardi di dollari l'anno, "le conseguenze potrebbero essere devastanti. Troppo spesso gli aiuti hanno fatto più male che bene, specialmente in Africa. Hanno ingigantito le èlite politiche e tolto potere all'uomo comune". Erixon confuta alla radice la teoria indiscussa da decenni secondo la quale gli aiuti esteri avrebbero la forza di dare la spinta iniziale a un'economia e rompere così il "circolo vizioso della povertà". In realtà, dice l'economista, "i Paesi non sono poveri perchè mancano di strade, scuole o ospedali. Mancano di queste cose perchè sono poveri. E sono poveri perchè non hanno le istituzioni di una società libera, le quali creano le condizioni di base per lo sviluppo economico". In altri termini, a condannare alla povertà è l'assenza di diritti di proprietà, di leggi e norme, di mercati aperti, di governi onesti e non invadenti, di commercio estero. Gli aiuti, al contrario, hanno due tipi di effetti negativi: spostano l'attenzione dal problema vero, cioè dalla creazione di istituzioni che funzionano; e soprattutto spingono ai margini gli investimenti privati, danno risorse a regimi dispotici per continuare a opprimere, minano la democrazia, perpetuano la povertà" (Taino 2005d). Sempre in quei giorni appare l'intervento di Bhagwati sul Corriere della Sera: "Gli scettici temono quindi che una forte espansione degli aiuti porti, in molti casi, a uno spreco di risorse piuttosto che ai risultati desiderati in termini di sviluppo. (…) Il rischio peggiore, tuttavia, non è lo spreco dei fondi: il problema è che un'accelerazione rapida degli aiuti potrebbe perfino risultare controproducente per il paese beneficiario, creando gravi danni reali. Quanti credono (come apparentemente il mio collega Jeffrey Sachs) nella "maledizione del petrolio" - ovvero che l'improvviso aumento della ricchezza possa danneggiare un paese, alimentando dissolutezza e corruzione – devono anche temere che i paesi recipienti possano esere travolti da un'ondata di corruzione, alimentata dalla valanga di finanziamenti che si rovescerebbero sulla classe burocratica e politica". Da segnalare anche il lungo contributo, apparso proprio il giorno precedente su il Foglio, del ghanese Ayitter, che punta il dito contro politica della carità, tirannia, pianificazione e corruzione"Un sistema economico di stampo statalista o "dirigista", con i suoi innumerevoli mecanismi di controllo, ha finito col determinare la mancanza cronica di prodotti, e il mercato nero, alimentando un clima di corruzione e di concussione, ha sostanzialmente distrutto la base produttiva. Nel frattempo, il sistema politico a partito unico e le dittature militari sono degenerati in tirannia. E l'enorme concentrazione di potere politico ed economico nello Stato lo ha trasformato in Stato "vampiro" o "illegale". Il "governo", inteso come istituzione, ha cessato di esistere per diventare ostaggio di un manipolo di banditi e criminali incalliti, che usano la macchina dello Stato per arricchire se stessi, i loro compari e le tribù cui appartengono. (…) I perchè del disastro africano. La verità è che in africa si ruba sistematicamente (…) Stando ai calcoli delle nazioni unite, infatti, in un solo anno, il 1991, ben 200 miliardi di dollari sono stati trasferiti su conti esteri, ovvero il 90 per cento del Pil dell'Africa subsahariana". L'intervento si chiude poi con alcune proposte, che ritroviamo in parte nel commento di Meltzer alla candidatura di Wolfowitz (la cui più stretta ispiratrice di politica mediorientale – sia detto per inciso – è la compagna araba; cfr. Corriere della Sera, 19 marzo 2005) alla Banca mondiale: "La competitività dei mercati e un efficiente sistema giudiziario contribuiscono a ridurre la corruzione, un problema particolarmente grave nei paesi in via di sviluppo. Secondo una stima della Banca mondiale, i tutti i paesi le tangenti ammontano ogni anno a 1.000 miliardi di dollari. Se utilizzata razionalmente, anche una piccola parte di questa somma basterebbe a migliorare il tenore di vita. La democrazia, la libertà di stampa e un efficiente sistema giudiziario sono un antidoto contro la corruzione. (…) La Banca deve essere certa che i prestiti non vadano a tiranni o dittatori e che vengano utilizzati proficuamente. La democrazia e le riforme istituzionali non garantiscono buoni risultati, ma ne aumentano la probabilità.(…) Nell'ultimo decennio la povertà è diminuita drasticamente. Il miglioramento è più visibile in Asia, particolarmente in Cina e in India. L'apertura dei mercati, gli investimenti privati e la salvaguardia dei diritti di proprietà hanno contribuito molto in questo senso. Dove questi incentivi alla crescita e allo sviluppo sono deboli o inesistenti, come nell'Africa subsahariana, la povertà è spesso aumentata nonostante i continui prestiti della banca mondiale e gli aiuti internazionali. La banca ha prestato 15-10 miliardi di dollari all'anno per molti anni, una somma enorme per paesi dove molte persone vivono con 1 dollaro al giorno o meno. Tuttavia, in molti paesi clienti della banca mondiale, dopo anni di prestiti, molti villaggi sono ancora sprovvisti di acqua potabile, sistemi fognari, un'istruzione elementare e l'immunizzazione cintro comuni malattie infantili come il morbillo. L'amministrazione Bush, bisogna dargliene atto, si è battuta per ottenere sovvenzioni destinate a risolvere alcuni di questi problemi. Ha introdotto il concetto di "pay for performance", ossia si ricevono maggiori aiuti se i progetti sono portati a termine. I paesi hanno così un incentivo al successo dei progetti". Specifica poi: "Nel 2001, Bush ha consigliato, e ottenuto, di sostituire i prestiti con "concessioni a performance monitorata" per i paesi molto poveri". Si vedano anche Panebianco in nota 57 qui (sulla vocazione parassitaria delle classi medie dei Pvs), Furcht 1990 p.666. Chiti-Batelli, pp.12-3, Mazzoleni (in Sartori e Mazzoleni, pp.112 e 223), Alvi 2002, Luttwak 2003, Mieli 2004a (sulle ruberie di Mugabe e i fondi UE), Sarcinelli, Ronchey 2004c, Gardels, Riotta 2005c e l'intervista di Alberizzi a Zenawi.

Lasciamo la conclusione a Giuliano Zincone che, dopo aver recensito con grande rispetto un testo rappresentativo della linea dell'"accoglienza" cattolica (Eurafrica, di Riccardi e Marazziti, della Comunità di S.Egidio), commenta: "La ricetta dei cattolici, in apparenza, è ineccepibile: accogliere gli immigrati e (soprattutto) aiutare le popolazioni povere, regalare il nostro cibo, favorire la democrazia, rispettando i costumi locali. Sì, ma come facciamo? Nell' Africa dove anche la polenta, l' acqua e il riso sono armi strategiche e strumenti di potere, l' Occidente ricco deve esportare la carità con le armi in pugno. E, quindi, imporre (sì, imporre) le regole civili ai despoti indigeni, spesso corrotti, razzisti e assassini" (2004a).

[118] Cfr. Galli Della Loggia 2002b e anche Furcht 1993, p.225; si veda anche il §3.3. Con le parole di Ricossa (p.26): "I solidaristi occidentali, al contrario, si sentono in colpa, perciò costringono noi contribuenti a sborsare milioni di dollari, che gli iracondi del Terzo Mondo esigono per uscire gratis dalla miseria. Ma essendo iracondi, si procurano coerentemente più armi che cibo, e profittano della loro indipendenza di decolonizzati per ammazzarsi fra loro in guerre e guerriglie intestine (tanto per cominciare)". In questo senso anche Ayitter: "Queste mostruosità non sono retaggio dell'impero coloniale, ma sono imputabili agli stessi leader africani [una controprova delle responsabilità del colonialismo è il confronto con la situazione antecedente]. (…) è evidente che le risorse di cui l'Africa ha bisogno per crescere sono reperibili al suo interno: basterebbe che i suoi leader fossero disposti a riformare i loro esecrabili sistemi economici e politici, a privilegiare l'agricoltura nell'ambito delle politiche di sviluppo, a eliminare la corruzione e a investire i loro capitali – leciti o meno – in Africa. Ma la leadership non pare avere alcuna intenzione di attuare questo genere di cambiamenti. Preferisce, piuttosto, guardare oltre confine e battere cassa in occidente. E, a complicare il problema, l'occidente alarga i cordoni della borsa e concede quanto gli viene richiesto. Un senso di colpa eccessivo e fuorviant. Oppresso da una sensibilità eccessiva nei confronti della questione razziale e dai sensi di colpa per le iniquità della tratta degli schiavi [per la quale si dimentica spesso di indicare le responsabilità islamiche, oltre che quelle locali] e del colonialismo, l'occidente è sempre stato restio a a parlare con franchezza dell'Africa. Incapaci di distinguere tra leader africani e cittadini africani, gli occidentali evitano di criticare i primi, nel timore di essere tacciati di "razzismo" o accusato di "infierire sulla vittima". Questa estrema sensibilità mette i leader africani al riparo delle critiche e involontariamente li aiuta a perpetuare politiche fuorvianti e scelte sbagliate".

[119] Per determinare la destinazione degli investimenti gioca un ruolo importante l'efficienza del cosiddetto "sistema-paese", che dipende da fattori quali il livello del capitale umano, il costo del lavoro a parità di produttività, la qualità dei servizi ed infrastrutture, il peso degli oneri fiscali e burocratici, la trasparenza del sistema rispetto a corruzione e criminalità – oltre che naturalmente dalla sicurezza (stabilità politica anzitutto).

[120] Cui si sta affiancando l'altro gigante asiatico, che minaccia i livelli occupazionali dell'Occidente – anche quelli di nicchia – non solo indirettamente tramite l'export di merci a prezzi più convenienti; come scrive Della Mura (vedi anche Malan): "Ci sono due parole che, se associate, fanno tremare i polsi al sindacalista statunitense: off-shore e Bangalore. Fanno pure rima, ma non è per questo che il fenomeno sotto osservazione da parte di tutti negli Usa. Qui si parla, infatti, di delocalizzazione del lavoro. Ma stavolta non è quella produttiva, fenomeno ormai conclamato. Qui si tratta di creazione di posti di lavoro "intellettuali" in paesi terzi, al costo di un terzo di quello attuale". Onore al merito, si dovrebbe commentare.

Chiudo questo excursus con una nota di colore sull'ampiezza di possibilità di questo fenomeno , dall'articolo di Ricci sui premi IgNobel 2004: "Assenti invece i rappresentanti del Vaticano, che ha vinto il premio per l'economia per aver dato in outsourcing, ai preti indiani, le dediche delle intenzioni delle messe richieste dai fedeli, a causa della penuria di celebranti in alcuni Paesi come gli Usa". Tra gli altri premiati dell'anno una ricerca sulla dinamica dell'hula-hoop (fisica) e sul riporto per i calvi (ingegneria).

[121] Teitelbaum, citato anche in Furcht 1996, scrive (pp. 296-7): "Il paradosso fondamentale delle tesi che imperniano la politica di immigrazione sullo sviluppo risiede nella contraddizione tra gli effetti attesi da tale sviluppo a lungo termine, e quelli a breve termine (per lungo termine intendiamo un arco di più generazioni, ad esempio vari decenni; per breve termine intendiamo lo spazio di un decennio o due). A lungo termine, è piuttosto evidente che un rapido sviluppo economico nel Terzo Mondo finirebbe per ridurre, nel presente ed in prospettiva, le pressioni che favoriscono l'emigrazione. (...) Tuttavia, la contraddizione interna risiede nel fatto che un considerevole e rapido sviluppo economico comporta cambiamenti profondamente destabilizzanti delle società in via di sviluppo. Nella fase iniziale, molte di esse rafforzano la spinta all'emigrazione, invece di moderarla. (...) Di conseguenza a breve termine, che in questa sede indica un periodo tra i 10 e i 20 anni, lo sviluppo economico potrebbe avere come effetti di promuovere ed accelerare l'emigrazione". Si vedano anche Garonna, p.40, e Melotti 2004.

[122] Cfr. ad esempio Brunetta o Sarcinelli; per le reazioni statunitensi (specialmente del partito democratico) a outsourcing e offshoring vedi Margiocco 2004

[123] Si vedano ad es. Della Vedova (a e b), Cadalanu, Mazzoleni (in Mazzoleni e Sartori pp.100-1 e 196 e segg., 204-6 e 232-3) e Alesina (che ha ribadito verbalmente che la politica agricola comunitaria – oggi in via di riforma – è una delle maggiori fonti di danno per i paesi poveri), in curiosa convergenza con Walden Bello (si vedano le dichiarazioni in occasione del vertice di Cancun del 2003), rappresentante dell'ala terzomondista del movimento no-global. Un punto di vista controcorrente, in dissenso accortamente motivato, è quello di Sartori (2003c), che correttamente distingue anzitutto gli interessi dei produttori da quello dei consumatori (un approccio che ritengo importante e ho privilegiato Furcht 1990, 1994 e 1999a) anche nei PVS, e che poi mette in rilievo la valenza strategica dell'agricoltura, in particolare alla luce delle crescenti minacce ambientali.

[124] Un criterio, pur non decisivo, può essere d'aiuto: quello della pari severità sul controllo dei prodotti interni e di importazione.

[125] A livello planetario e specialmente se non consideriamo le segmentazioni interne, l'offerta di lavoro è sicuramente superiore alla domanda, ed è questo ad abbattere i salari (che si gioverebbero, alla lunga, di una diminuzione del tasso di incremento demografico). A questo riguardo Rosenberg e Birdzell annotano: "… per i paesi e le regioni la cui risorsa economica principale è un'abbondanza di forza lavoro disoccupata, l'impiego di questa nei migliori termini disponibili sembra essere non solo un ragionevole sentiero di sviluppo economico, ma anche un dettato morale. (…) Inoltre una prospettiva internazionale è qui essenziale. Aprire un nuovo impianto in Corea [il libro è degli anni Ottanta, si è poi vista l'impetuosità dello sviluppo sud-coreano] farà lievitare i salari in Corea " (pp.30-1).

[126] Vedi anche Ronchey 2002d.

[127] Quindi pochi figli, per i quali però si spende molto.

[128] Questo è uno dei contributi più specifici del genio di Becker (cfr. pp.40-2: si tratta del saggio Un'analisi economica della fecondità). Per una visione di insieme di questo tipo di teorie si veda De Santis, cap.III.

[129] Nelle nostre società, caratterizzate comunque da grande attenzione per l'individuo, essi sono visti anche come una risorsa socialmente scarsa.

[130] Bouthoul scrive (p.27): "Credo si possa enunciare in proposito una vera legge: la crudeltà degli eventi politici tende a essere proporzionale all'accrescimento demografico dei paesi dove tali eventi si producono"; a proposito della durezza del sistema di giustizia si vedano anche le considerazioni di Beccaria in nota 169. In realtà questa formulazione mi sembra interessante ma opinabile, specie sotto forma di causalità diretta ed esclusiva (vi sono importanti variabili intervenienti, quali modernizzazione e secolarizzazione, con il conseguente maggiore rispetto per l'individuo e i suoi diritti): come minimo si può dire che vi siano state vistose eccezioni, proprio in Europa nel secolo ventesimo.

[131] Rosenberg e Birdzell osservano a questo proposito che "Le ore di lavoro nelle economie preindustriali devono probabilmente essere poche perchè ad una popolazione denutrita manca l'energia per lavorare a lungo. L'orario più corto non è necessariamente una preferenza per il tempo libero: esso può imporsi perchè un inadeguato regime alimentare non consente un'attività lavorativa al di là di un certo limite. Considerando i livelli marginali di sussistenza dell'Europa occidentale del diciottesimo secolo e di molto tempo prima, non si può dire che l'orario di lavoro fosse ridotto perchè i lavoratori preferivano il tempo libero ai salari: poteva esserlo, come nei paesi del Terzo Mondo, a causa della malnutrizione" (p.219).

[132] Iraci Fedeli (1990, pp.122-34) sostiene che molti degli orrori dell'industrializzazione si dovettero in realtà ad un lascito dell'era preindustriale, e non contenevano un reale vantaggio economico per i detentori del capitale. Di grande interesse, anche perchè decisamente controcorrente, l'analisi di Rosenberg e Birdzell (cap.V), che mettono in rilievo come la Rivoluzione Industriale abbia prodotto in realtà grande benessere, anche nell'immediato, ai lavoratori britannici, specie al netto dell'effetto negativo delle guerre napoleoniche. Per diversi motivi, però, tale progresso non venne riconosciuto dagli osservatori: "esiste comunque un'estesa letteratura sul fatto che i miglioramenti materiali furono raggiunti a spese di grandi sacrifici imposti alla classe lavoratrice e che persino i progressi intellettuali non tennero nel dovuto conto gli urgenti bisogni delle masse occidentali. Molta di questa letteratura fu scritta per promuovere una legislazione intesa a migliorare le condizioni di lavoro nelle fabbriche del diciannovesimo secolo e se ciò andava a scapito dell'obiettività era almeno per una buona causa. Ma adesso è diventato più importante capire il mondo del diciannovesimo secolo che cambiarlo" (p.211). A loro avviso si trascura di considerare che il sistema delle fabbriche avvantaggiasse le masse diseredate, in quanto le metteva in condizione – in una situazione di eccedenza di manodopera agraria – di accedere direttamente al mercato del lavoro, aggirando i privilegi corporativi insiti nel sistema dell'apprendistato. Eppure "La reazione della borghesia inglese a tutto questo rimane un caso affascinante di patologia sociale. Non avendo visto per secoli nei poveri null'altro che occasione per esercitare, con dovuta moderazione e modestia, carità e compassione da parte dei più fortunati, molti borghesi inglesi percepirono il sistema industriale non come un significativo progresso sociale, ma come uno spietato sfruttamento dei poveri. Proprio al di sotto dei borghesi si trovavano gli artigiani, le cui regole corporative avevano a lungo filtrato, se non bloccato, l'accesso alla maggior parte delle occupazioni comuni. Essi non si ritenevano monopolisti finalmente smascherati, ma vittime di una nuova e molto ingiusta forma di competizione. L'Inghilterra degli intellettuali, nell'insieme, condivise le opinioni sia della borghesia che degli artigiani. La realtà difficilmente avrebbe potuto essere più distorta" (p.217).

[133][133] Così Jagdish Bhagwati, citato da Della Vedova (2006), che ne recensisce il libro Free Trade Today: "Bhagwati non esita ad affrontare il più sensibile degli standard che renderebbero iniquo il commercio internazionale, e cioè lo sfruttamento del lavoro minorile nei Paesi poveri, ma anche qui la sua analisi si discosta dagli stereotipi buonisti: "...se si colpiscono queste esportazioni con sanzioni, si ottiene solo il risultato di costringere i bambini a situazioni di sfruttamento ancora peggiori, e le bambine addirittura alla prostituzione"".È opportuna un'ulteriore citazione da Rosenberg e Birdzell, che pragmaticamente prendono in considerazione la questione delle alternative (pp.184-5): "La descrizione dello sviluppo industriale occidentale contenuta in questo capitolo contraddice un'altra opinione convenzionale: quella secondo cui i vantaggi economici del periodo compreso tra il 1750 e il 1880 furono raggiunti a costo di enormi sacrifici (…). Effettivamente, ci sono buone ragioni per credere le alternative che si suppone furono sacrificate dai primi lavoratori della fabbrica erano molto meno attraenti del lavoro in fabbrica – con ciò non si vuol dire che il lavoro in fabbrica fosse attraente: lo era solo se rapportato alle alternative".




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