Andrea Furcht

Demografia, occupazione, delinquenza, terrorismo: terzomondismo e luoghi comuni sull'immigrazione

Parte 7 di 8


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Appendice 2: politically correct e paternalismo etico

 

La locuzione correttezza politica designa un insieme implicito di norme che riguardano alcuni giudizi di valore "sensibili", tipicamente riferiti a collettività umane; tali norme sono usualmente negative[373], anzichè propositive: più che le opinioni in sè, colpiscono la liceità della loro espressione; l'attenzione, oltretutto, si focalizza sulla forma (per esempio, sui termini che vengono impiegati) anzichè sui contenuti, caratteristica questa dell'atteggiamento bigotto[374]. Si tratta insomma in sostanza di una censura che colpisce molte affermazioni ritenute discriminatorie verso determinati gruppi (non necessariamente minoranze: si pensi al caso delle donne, che sono maggioranza nelle nostre popolazioni[375]).

Siamo di fronte ad una sorta di conformismo progressista, speculare al moralismo bacchettone che caratterizza le società tradizionali? Dal punto di vista strutturale, esiste un tratto comune che è interessante sottolineare in questa sede: in ambedue i casi abbiamo una costellazione di precetti morali specifici, e non un'etica imperniata su un gruppo ristretto di principi – anche uno solo – dal quale trarre deduttivamente le indicazioni per i comportamenti nella molteplicità di evenienze che si presentano nella vita quotidiana (come è invece il caso dell'utilitarismo, che impone di perseguire la massima felicità complessiva). Mi pare insomma si rientri a pieno titolo in quella che Russell chiama "etica superstiziosa"[376].

Qui sta, a mio modo di vedere, la maggiore controindicazione del politically correct: l'affastellamento di norme particolari[377] non consente infatti, se non a prezzo di ulteriori e faticose complicazioni, la risoluzione dei casi di conflitto che prima o poi inevitabilmente si presentano[378] (Savater, p.34: "L'etica non è un codice quanto piuttosto una prospettiva per la riflessione pratica sulle nostre azioni"): è questo il prezzo da pagare al politeismo etico. Si tratta quindi di una debolezza di metodo, non di contenuti: chi è profondamente influenzato dalla "correttezza politica" tende ad essere imbarazzato da dilemmi irresolubili (altra cosa rispetto al dubbio di chi rifugge dai dogmi), segno della presenza di falle nella costruzione logica del proprio sistema di valori. Non si tratta di pura teoria: si è spesso costretti a scegliere tra difesa della condizione femminile (e dell'infanzia) e rispetto delle peculiarità di molte culture dette altre – si pensi all'Islam[379] (su questo ha recentemente alzato la sua voce Erica Jong, cfr. l'intervista ad Alessandra Farkas; vedi anche Augè in nota 325), anche se il fulcro della questione sta prevalentemente nella contrapposizione tra atteggiamenti tradizionali (per non dire arcaici) e atteggiamenti moderni. I paradossi nascono dalla mortificazione del senso critico – cui demandiamo il compito di trarre linee-guida concrete dai principi etici astratti – indotta dai tabù: da qui l'obbligo di scelte sentite come drammatiche, quali l'alternativa secca di doversi considerare "maschilista" oppure "eurocentrico", optare per il rispetto dello "specifico femminile" o delle "culture altre"[380] (non cito neanche la democrazia rappresentativa, considerata spesso un'imposizione occidentale[381]); spesso la preferenza va al "rispetto delle culture", anche da parte di chi poi non tollera la minima limitazione ai propri diritti, in particolare – e spesso a buon diritto, a mio modo di vedere – se imposta in nome della difesa della tradizione culturale della società di appartenenza[382]. Sembrerebbe molto più semplice basare la nostra condanna del pregiudizio sull'assunto morale di non recare danno agli altri con la discriminazione[383].

Quanto sin qui affermato porterebbe a rigettare in toto il politically correct, e in effetti a nessuno fa piacere riconoscere di seguire un atteggiamento conformista. Esiste però, anche se recondito, un lato positivo della rigidità morale: nei casi previsti non c'è – o è minore – lo spazio di equivoco per sbagliare, per piegare la morale personale alle convenienze (o ad avversioni culturali pregresse)[384]. Il dogma, insomma, può divenire più apprezzabile se visto come prevenzione radicale di mali peggiori come razzismo, discriminazione, odio etnico e persecuzione.

Abbiamo però visto che, disgraziatamente, ingessare il senso morale è una strategia miope: cambiando le circostanze, il sistema di convenzioni fatica ad adeguarsi. Ci può certo offendere che alla base del politically correct non stia una grande fiducia nel senso critico della maggioranza dei nostri simili: guardando alla storia, possiamo anche chiederci se tale fiducia sarebbe poi così ben riposta.

Ricorrere a un metodo simile implica ad ogni modo una notevole dose di paternalismo: avocando a sè le scelte morali, il sistema restringe lo spazio di libertà di giudizio dei singoli[385]. E quanto sia radicato il paternalismo nel nostro paese, lo si vede facilmente notando quanto spesso si ricorra al termine "educativo" (o "diseducativo", cfr. nota 155) in molti ambienti vicini alla cultura solidaristica.

Anche la filosofia penale incentrata su "recupero" e "ravvedimento" rivela, sotto la patina di benevolenza, un fondo di disprezzo per le scelte individuali – fossero anche quelle del reo, che viene trattato alla stregua di un incapace etico[386]. Naturalmente il paternalismo tocca il culmine quando si arriva ai minori[387]: è infatti nel caso della delinquenza minorile che l'accento viene maggiormente posto sul ruolo pedagogico di istituzioni (quali scuola, famiglia, chiesa) presentati come antidoto al "vuoto di valori"[388]. I giovani sono quindi considerati più come contenitori da riempire che non come soggetti autonomi, capaci di compiere scelte (non meno degli adulti, perlomeno) e di fronteggiarne le relative conseguenze. Si può invece sostenere che libertà e responsabilità siano maestri altrettanto buoni delle istituzioni tradizionali, che non vanno nè aprioristicamente demolite (come succedeva una volta) nè altrettanto acriticamente esaltate; se proprio si vuole esaltare la figura dell'educatore, che il suo ruolo sia allora quello di mettere a disposizione strumenti di analisi e non imporre conclusioni bell'e pronte.

L'indulgenza che il codice penale ma anche la prassi giudiziaria (che pare a volte essere vittima di una sorta di distorsione professionale) riservano ai minorenni[389] altro non è che l'altra faccia della negazione dell'autonomia. Certa condiscendenza non è infatti amica della libertà[390]: non solo perchè aiuta a ledere quella altrui, ma anche perchè facilmente si configura come tutela di incapace – tale è da considerarsi chi non è chiamato a rispondere delle proprie azioni. Il meccanismo della solidarietà dà diritto ad immischiarsi nelle scelte altrui: dal momento che se ti metti nei guai ti dovrò aiutare, ho un legittimo interesse a sindacarle. L'indipendenza, per contro, si coniuga con la responsabilità personale[391]: in un sistema di libertà lo Stato si intromette meno nelle autonome scelte dei singoli, salvo poi richiedere come contropartita un rigido rispetto delle norme poste a salvaguardia della convivenza civile. Il crimine non è una deviazione da una metafisica norma morale assoluta (vedi nota 375), chi lo compie non "sbaglia" (molto spesso chi commette un reato lo fa per oggettiva convenienza, seppure sotto condizioni di incertezza), bensì compie una scelta. In quest'ottica l'accento non è quindi sulla rieducazione (o, con altro termine che tradisce le origini religiose di questo atteggiamento, sulla "redenzione" che dovrebbe seguire il "pentimento"[392]), bensì sulla responsabilità personale. Non si tratta tanto di riportare il colpevole nel gregge (a rischio eventualmente di qualche pecorella), quanto di stabilire regole chiare nell'interesse comune. Ognuno è miglior arbitro della propria felicità, le regole servono a non calpestare quella altrui (e non in ogni senso: comportamenti che infliggono sofferenze terribili – si pensi al campo affettivo e sentimentale – non sono sanzionabili, perchè rientrano nella sfera di autonomia del singolo).

Esiste una controindicazione a quest'uso del politically correct ancora più decisiva di quella derivante dall'avversione a rigidità morale e paternalismo: come per il dispotismo illuminato, non vi è garanzia che siano virtuosi i fini per i quali viene soppressa (ma in questo caso sarebbe più appropriato dire "auto-soppressa") l'autonomia individuale.

Di fatto, la carenza di controllo critico derivante non solo dalla pluralità, ma anche dalla vivacità di voci (ingabbiate in realtà in una sorta di finta e precostruita audacia intellettuale) è responsabile di crimini morali quali l'indulgenza verso il terrorismo islamico, il cui affermarsi è stato facilitato magari dall'aver seguito salmodiando "vacche sacre" quali Michel Foucault – col suo riconoscimento entusiastico (e purtroppo contagioso) alla "rivoluzione" di Khomeini[393], mentre restavano inascoltate le poche voci lungimiranti che ammonivano sulla natura da "teocrazia nazista" del regime che si veniva profilando, quali Luigi De Marchi[394]. Oppure alla viltà intrisa di conformismo che ha portato all'omertà sulla natura non solo intollerante, ma anche apertamente razzista e connivente con lo stragismo islamico, della conferenza di Durban[395], ironicamente convocata contro il razzismo, prologo alle stragi dell'11 settembre 2001.



[373] Nel campo ad esempio della politica internazionale, sono infatti maggiormente sanzionati gli interventi considerati di aggressione (foss'anche contro sanguinari tiranni che mettono a rischio la vita di un gran numero di esseri umani) che non le omissioni. Mai vengono contate tra le atrocità azioni indirette quali quelle delle truppe ONU, rispettivamente belghe e olandesi, quando fuggirono da aree del Ruanda e da Srebrenica, lasciando in balìa dei massacratori i civili che si erano affidati alla loro protezione: Jean 2004 ricorda il secondo episodio come una "macchia indelebile" sull'organizzazione, cfr. anche Nava 2004a, Prodi, Novak e Gergolet 2005a; in Battistini 2005a leggiamo: "Là dietro poi stavano "i peggiori di tutti – spiega l'orfano –, i caschi blu dell'Onu che ci lasciarono in mano a quelle bestie, fuggirono nelle discoteche di Spalato a festeggiare la fine della naja, senza avvertire nessuno"". Per simili prodezze compiute in Congo, Taino 2005a e 2005c (relativo in particolare all'aeroporto di Bukavu); su altri scandali relativi alla loro condotta cfr. Caretto 2005º e ancora Taino 2005c.

Dar maggiore peso etico alle azioni che si compiono che non ai risultati di eventuali omissioni è più coerente con l'etica della convinzione che non quella della responsabilità, e tale scelta morale ha forse anche radici fisiologiche; scrive infatti Di Giorgio: "le ricerche di un gruppo di scienziati dell'università di Princeton hanno inaugurato le indagini sulle basi biologiche delle scelte morali. Scoprendo che quando siamo alle prese con un dilemma etico non lo affrontiamo sempre con le sole armi della razionalità. Secondo quanto riferito su "Science" da Jonathan Cohen e colleghi, se la situazione da cui nasce il dilemma è "impersonale" (è lecito lasciar morire una persona per salvane cinque?) nel cervello si attivano solamente le aree responsabili del pensiero analitico e azionale, come la corteccia prefrontale. Ma se il problema diventa più "personale" (è lecito uccidere una persona per salvane altre cinque?), ad attivarsi sono anche, anzi soprattutto, i sistemi neurali responsabili delle emozioni". Si veda anche Furcht 1999b, §2.1, versione riveduta (www.furcht.it/a-scb2b.htm).

[374] Di "bigotti" parla Ostellino, 2004c (cfr. anche 2004b), alludendo di fatto al tipico esponente del politically correct. Un tipo umano che ricorda anche il "razzista democratico" dipinto da Nirenstein (1990).

[375] Su questo, cfr. Sartori 2000a, pp.62-3.

[376] "Nei capitoli precedenti è stato mostrato che il fatto che un'azione sia giusta o ingiusta dipende dalle sue probabili conseguenze e non dalla sua appartenenza ad una classe di atti etichettati come virtuosi o peccaminosi, indipendentemente dai loro effetti. è possibile che questa prospettiva venga accolta come una teoria astratta senza che ci si renda conto di come essa sia contraria all'uso comune. La parola "morale" e ancor più l'aggettivo "immorale", implicano comunemente una misteriosa e inspiegabile qualità conosciuta come appartenente ad un atto in virtù o di un tabu o di una rivelazione soprannaturale. Questo punto di vista domina i giudizi morali della maggior parte della gente e influenza profondamente il diritto penale. Ed è proprio questo punto di vista che io chiamo "etica superstiziosa"" (Russell, p.122).

[377] La mancanza di un principio oggettivo di base deriva soprattutto dal meccanismo di inclusione dei gruppi nella lista dei favoriti; su questo è particolarmente illuminante Sartori (2000a, pp.76-7; ma cfr. anche De Nicola 2004), che si riferisce alle politiche statunitensi di affirmative actions: "…perchè nel riconoscere alcune differenze scegliamo proprio quelle che scegliamo? (…) A me sembra che a questo punto il perchè logico cede il passo a questa spiegazione pratica: che le differenze che contano sono sempre più le differenze evidenziate da chi sa fare rumore o si sa mobilitare nel favorire o danneggiare interessi economici o interessi elettorali. Il punto è, allora, che oramai è quasi impossibile ritrovare – in questo ginepraio di differenze ‘riconosciute' – un criterio oggettivo e coerente che le determini". Un esempio nostrano: quello degli anziani, passati da zimbello dei giovani nel post-‘68 a categoria crescentemente considerata, se non addirittura vezzeggiata, in ragione dell'incremento del loro peso elettorale.

[378] Lascio invece cadere una seconda questione, altrettanto interessante ma qui meno pertinente: le morali articolate per precetti specifici sono omogenee all'etica delle intenzioni, quelle deduttive invece all'etica delle conseguenze. Il tendenziale antipragmatismo del "politicamente corretto" si riverbera anche in atteggiamenti generali quali il peso spropositato dato ai diritti (che tendono ad una irrefrenabile moltiplicazione) rispetto alla possibilità pratica della loro soddisfacimento: a questo è riconducibile una predisposizione nel legiferare quale quella cui si accennava nella parte finale dell'§1.3.

[379] Vi sono naturalmente altri esempi: ad esempio la tradizione di alcune popolazioni – ad esempio in Nuova Guinea, non solo cannibali ma anche cacciatori di teste da tagliare per motivi rituali (un altro pesce per il gruppo Abele – cfr. nota 60). Un simpatico ritorno a simili tradizioni si è avuto con i massacri – contraddistinti appunto da decapitazioni – del febbraio 2001. Il caso è esemplare, e viene utilizzato anche da Russell.

[380] Alcuni esempi in Nirenstein 1990, p.144. Nel sito Internet del Dialogue Project della quale Azar Nafisi è esponente di spicco leggiamo: "Il relativismo culturale ha fatto sì che le peggiori pretese della retorica islamista vengano accettate come dati di fatto. Questo pensiero apologetico impone una forma repressiva di determinismo culturale ai popoli di paesi a maggioranza musulmana" (in Davidkhanian).

[381] Scrive Berman: "La sinistra in tutto il mondo è stata incapace di comprendere la natura antifascista della guerra contro Saddam Hussein per sei ragioni. (…) 4) Perchè molta gente di sinistra, nello sforzo benevolo di rispettare le differenze culturali, ha deciso che agli arabi debba piacere vivere sotto le dittature [questa mi pare però anche la tesi dell'iper-realista Huntington, cfr. ad es. p.163] e che non siano capaci di niente altro (…). Vale a dire che molta gente di sinistra, invocando il principio della tolleranza culturale, si aggrappa ad atteggiamenti che potrebbero benissimo essere considerati razzisti nei confronti degli arabi". Su queste posizioni anche altri, tra i quali Pannella, Bonino, De Marchi e – implicitamente – Nirenstein, che sostengono l'esigenza di propagandare la democrazia presso i popoli islamici vittime di un'informazione squilibrata molto spesso coincidente con la propaganda totalitaria (cfr. nota 187). Naturalmente una parte importante, anche se temo minoritaria (o perlomeno meno ululante), della sinistra sostiene l'esigenza di lottare contro il terrorismo in alleanza con gli Stati Uniti; se il capofila di questa posizione è Blair, non si dimentichino le voci in questo senso levatesi anch in Italia: si pensi alle dichiarazioni di Fassino nell'intervista a Franco (2005), e le successive prese di posizione dall'intervista a la Stampa del 20 marzo. In merito alle dichiarazioni di Fassino del marzo 2005, alle polemiche che hanno suscitato, e alla solidarietà tra gli altri di Ranieri, Caldarola e Macaluso vedi anche Fregonara 2005a,b,c; cfr. anche Franchi 2005b. Ancora Fassino – che D'Alema (molto diverso in questo) definì "un po' sionista" – raccoglie le lodi di Battista per questa ed altre coraggiose prese di posizione precedenti, così come quelle di Panebianco 2005a, e di Ostellino ("forza") 2005a. Con lui, altri dichiarano solidarietà a Israele quando il presidente iraniano ne invoca la cancellazione dalla carta geografica (cfr. Conti 2005b). D'altronde, su altre posizioni, già Barenghi de il Manifesto aveva sfidato i dogmi affermando nel settembre precedente di preferire "un Iraq liberato dagli americani piuttosto che dai tagliatori di teste". Sempre il Manifesto polemizza contro i "pasdaran" filoisraeliani: oltre ai già manzionati Fassino, Caldarola e Ranieri, anche Landolfi, Angeletti, Polito e, meno omogeneo alla sinistra, Pannella (Conti 2005c). Vedi anche Reibman , intervistato da Caccia (2006a).

[382] Cfr. ad esempio Panebianco 2004g

[383] Cui si aggiunge il danno che il prevenuto infligge a se stesso, col fatto di viziare sistematicamente le proprie valutazioni (nelle evenienze di una certa rilevanza: il giudizio aprioristico può altrimenti rivelarsi un funzionale pilota automatico). Si veda su questi temi Furcht 1998.

[384] "Il tabu, come fonte di comportamento morale, presenta dei vantaggi notevoli. Psicologicamente è molto più vincolante di qualsiasi regola puramente razionale; si confronti ad esempio, l'istintivo orrore dell'incesto con la fredda riprovazione dell'attività dei falsari, riprovazione che non può derivare da superstizione dal momento che i selvaggi non possono falsificare moneta. Il tabu può proibire atti assolutamente innocui come mangiare le fave, ma probabilmente anche atti veramente dannosi come l'omicidio, e lo fa con maggior successo di un qualsiasi altro metodo morale praticabile da comunità primitive." (Russell, p.22). Quattro i punti deboli di questo sistema, secondo Russell (nel testo ho aggiunto la questione della coerenza interna e, in parte, quella dell'adattabilità):

1.       la quantità di informazione disponibile in una società avanzata erode il tabù, a meno che non si eserciti un oppressivo controllo sugli individui;

2.       l'abbandono di un singolo tabù porta al discredito dei rimanenti: l'intero sistema di prescrizioni morali può crollare come un castello di carte (si tratta in sostanza dell'"effetto-domino" tanto caro agli strateghi di geopolitica); come dire, i sistemi rigidi si spezzano, ma non si piegano (questo può essere rilevante per spiegarsi la resistenza al cambiamento nelle società islamiche, cfr. nota 181);

3.       in tutti i sistemi di tabù emersi storicamente, ve ne sono stati diversi dannosi;

4.       l'orientamento negativo (rifuggire da certe azioni) invece che prescrittivo (quest'ultimo si trova a p.31).

[385] Segnalo un caso che, per quanto assai differente, presenta un'analogia. Abbiamo tutti notato quanto sia fredda – quasi raggelante – la cortesia standardizzata che troviamo spesso da parte degli operatori dei call-centers o delle hostess in fiere e congressi. Agli addetti vengono evidentemente date precise prescrizioni su cosa rispondere, del tipo: "Buongiorno, azienda Y, sono X, in cosa posso aiutarla?" – è ovvio concludere che il fastidio di una palese insincerità sia considerato un danno minore rispetto all'arbitrio di persone ritenute poco affidabili (altrettanta sfiducia, riguardante stavolta il modo di vestire, può essere alla base dell'abitudine di imporre una divisa al personale a contatto con il pubblico).

[386] Per esempio è comune dire che chi delinque "sbaglia", mentre molto spesso è del tutto consapevole delle proprie azioni.

[387] Per i quali può comunque sembrare troppo elevato il limite dei 18 anni: ma se questo vale dal punto di vista giudiziario, deve allora anche valere per il pieno godimento dei diritti di cittadinanza.

[388] Bisogna però capire chi decide quali debbano essere i "valori": la solidarietà o l'arricchimento, la famiglia o i coetanei, la patria o la rivoluzione, la libertà o l'egualitarismo, la religione o il progresso scientifico. Chi conosce la storia si chiede oltretutto se non siano stati commessi più orrori in nome dei valori che in assenza di essi.

[389] Mancando di tutelare le potenziali vittime, che sono in primo luogo altri minorenni – la categoria di cittadini maggiormente minacciata dalla delinquenza minorile: un caso di contiguità analogo a quello segnalato per gli stranieri nel §3.2.

[390] De Marchi, nell'intervento del 4 ottobre 2004, mette in luce quanto su questo piano abbiano in comune autoritarismo e permissivismo, ambedue opposti a libertà e responsabilità.

[391] Lo scrive chiaramente anche Rifkin, pur nel modo poco benevolo da attendersi in chi non condivide questo modello (che egli poi contrappone a quello europeo, meno individualista): "I bambini americani vengono educati dai genitori a essere autonomi. crescono con l'idea che devi pensare a te stesso, perchè non c'è nessun altro che si prende cura di te. L'altra faccia della medaglia è che nessuno deve dirti come vivere la tua vita. ciascuno, in altre parole, è da solo in un mondo competitivo." (2004). Un esempio illuminante è l'atteggiamento delle autorità in occasione dell'uragano Latrina, con riferimento "… [a]gli almeno 50mila (ma qualcuno calcola 100mila) che hanno ignorato l'ordine di evacuazione deciso da sindaco e governatore, preferendo aspettare barricati in casa il passaggio del "mostro". Una disobbedienza, la loro, per la quale non sono previste sanzioni, salvo però l'impossibilità di pretendere un soccorso tardivo in caso di pericolo: la precedenza viene data a chi è stato un buon cittadino" (Mattioni 2005).

[392] Se il giudice non deve dare patenti di bontà o cattiveria personali all'imputato (cfr. note 42 e 375), a maggior ragione al di fuori del contesto nel quale è stato commesso il reato, il sentimento di pentimento non deve avere grande rilevanza ai fini della pena. Per di più solitamente questo viene oggettivamente indotto dalla cattura, una sorta di "sindrome di Stoccolma" all'inverso, nella quale la convenienza individuale gioca un ruolo ambiguo e probabilmente inconscio. Un accenno a questo in Savater, che annota: "Doveri, obblighi, sanzioni? la coscienza intima dell'obbligo e il rinforzo esterno della sanzione possono avere effetti socialmente proficui, ma restano comunque delle protesi per una volontà etica che si sente frequentemente invalida (…) " (p.34). Ma si pensi soprattutto allo sdegno buzzatiano del vibrante finale de I ricci crescenti.

Il "pentimento" è inoltre moralmente più apprezzabile, e soprattutto più credibile, se non dà vantaggi materiali (di pentimenti estorti o interessati sono piene le storie delle Inquisizioni): altro discorso per la collaborazione alle indagini, premiata per considerazioni estremamente pragmatiche, che non va confusa con una disposizione d'animo.

[393] Come ci ricorda De Marchi "Coccolato per anni a Parigi": la Francia, dopo la gloriosa stagione degli esuli antifascisti, pare invece (salvo una tardiva e parziale resipiscenza) aver sviluppato una certa predilezione per i figuri sanguinari, dai dittatori potenziali ai volgari assassini – dei quali non stupisce l'eventuale propensione alla scrittura nel genere giallo o noir, data la propria esperienza nel ramo.

[394] Cfr., anche per i passaggi che precedono, Il terrorismo islamico e la ricetta per sconfiggerlo e La commemorazione di Michel Foucault. Vedi anche i tre articoli sulle pagine culturali del Corriere della Sera (Fertilio 2005b, Panza 2005 b, c: in quest'ultimo leggiamo la dura condanna di Vattimo, anche a nome della sinistra), anch'essi nella direzione di una rivisitazione dell'ex-campione del pensiero alla moda; un po' quanto succede a Sartre: scrostata la patina di effimera gloria mondana, si giudica sul merito (vedi ad es. Ferroni 2006).

[395] Sulla cui infamia vedi ad esempio Nirenstein 2003, pp.283-5 e 520-1; cfr. anche nota 272.




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