Andrea Furcht

Modernizzazione, immigrazione, nuove vulnerabilità sociali

Parte 4 di 6


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4 Due questioni di politica sociale: lotta alla criminalità e Welfare

4.1 La criminalità

Il motivo per interessarci a questo tema non risiede solo nella sua rilevanza nella vita della collettività, solo di recente – del resto – adeguatamente apprezzata. In aggiunta alle generali implicazioni in termini di felicità pubblica (per usare un termine settecentesco) e di allarme sociale[1], con la conseguente centralità in termini di consenso politico, c'è infatti anche una ragione più precisa per occuparcene: questa variabile può influenzare il quadro futuro delle vulnerabilità sociali. Quasi tutti i segmenti di popolazione dei quali ci siamo occupati  vengono infatti colpiti in misura particolare dall'aumento della microcriminalità[2]:

a)      le donne: debole la propensione al crimine (cfr. Barbagli pp.61-3), ma purtroppo alta la probabilità di divenirne vittime – in particolare per alcuni reati; soprattutto, è esperienza comune che le misure preventive si configurino come una pesante limitazione alla libertà (mobilità, soprattutto) personale[3];

b)      gli anziani: discorso analogo a quello del punto precedente; qui però si aggrava ulteriormente un quadro di indebolimento sociale;

c)       i poveri: anche qui, le difese sono minori ed elevata la contiguità (residenziale, in primo luogo) con le occasioni di rischio; i pericoli crescono in connessione al grado di esclusione sociale – a differenza dei due casi precedenti, ad un'accresciuta probabilità di essere vittime di reati non si accompagna una propensione a commetterli inferiore alla media;

d)     gli stranieri: probabilmente la tendenza al crimine è relativamente alta in segmenti importanti della popolazione straniera; ma anche il rischio di subire reati è considerevole[4]. La questione è pertanto complessa, e forse più grave che negli altri casi: una diminuita capacità di combattere l'illegalità danneggerebbe gli stranieri sia indirettamente, suscitando xenofobia nella popolazione nativa , che direttamente (se ne cadono vittime – oltre il danno la beffa)[5];

e)      i piccoli esercenti: i negozi, in particolare nei quartieri degradati, rappresentano da sempre una facile fonte di contante alla portata dei piccoli rapinatori; oltre che, naturalmente, una fonte di reddito per i taglieggiamenti della criminalità organizzata.

Se la microcriminalità potrà giocare un ruolo di rilievo nelle dinamiche sociali dei prossimi anni, è naturale chiedersi cosa possa fare la politica per contrastarla. Dal punto di vista dell'insieme della repressione dell'illegalità – dalle indagini al sistema di detenzione e pena – è opinione diffusa che l'azione sia poco efficace.

Mettiamoci ora nei panni di chi debba operare una scelta a priori tra attività legali ed illegali su basi razionali di convenienza individuale (siamo pertanto nel paradigma dell'homo œconomicus) [6]: si tratterà in sostanza di confrontare l'utilità derivante dal lavoro a quella ricavabile dal crimine, ponderate per le relative incertezze: la prima dipenderà molto dalla probabilità di essere occupati, la seconda dall'efficienza investigativa, e da durezza e certezza della pena[7] (che dovrebbero controbilanciare una probabilità nulla di disoccupazione ed i lauti guadagni relativi all'illecito); il fatto che nella carriera delinquenziale ricavi e costi siano normalmente più elevati, ci porta a ipotizzare che questa venga intrapresa da chi ha una maggiore attitudine al rischio (cfr. anche nota 61).

Due sono i tipi di risposta fondamentali da parte delle istituzioni: quello definibile "avanzato" (aumentare la probabilità di individuare i colpevoli) e quello "della fermezza" o "barbarico", secondo le attitudini valoriali dell'osservatore (innalzare la durezza delle pene). Certo suscita preoccupazione il fatto che nel nostro paese la tendenza all'addolcimento di sanzioni e procedure si accompagni ad una notevole inefficienza nell'amministrazione della giustizia e soprattutto ad una scarsa credibilità delle istituzioni, che si deve anche al ripetersi di provvedimenti di indulgenza in teoria eccezionali[8]. Questo comporta due ulteriori problemi nei confronti della criminalità degli stranieri, in quanto:

1)      alle politiche interne di repressione delle attività delinquenziali si accompagna il controllo dei flussi di immigrazione e la prevenzione delle reti informali finalizzate ad attività illecite[9].

2)      chi si accinge ad emigrare traversa una fase decisionale in più, potendo infatti valutare – una volta compiuta un'eventuale scelta per l'illegalità – se e verso dove espatriare; non sempre, dunque, l'opzione criminale è frutto della mancanza di sbocchi nel paese di immigrazione[10].

Il rischio per l'Italia è insomma di divenire una meta appetibile per la criminalità d'importazione[11], con i rischi che ne seguirebbero per la generalità dei cittadini, in particolare – come è stato messo in rilievo – per le fasce più deboli.

Chiediamoci a questo punto anche per quanto riguarda il crimine se lo sviluppo tecnologico comporterà dei cambiamenti. Il mio parere è che anche in questo peculiarissimo settore gli operatori "tradizionali" potranno trovarsi a malpartito: ad esempio si diffonderà ulteriormente la moneta elettronica e si ridimensionerà di conseguenza il ruolo del contante, vero terreno di coltura per le transazioni illegali oltre che per attività quali rapina e furto; inoltre, le tecniche di riconoscimento biometrico unite all'archiviazione elettronica e diffusione telematica dei dati di identificazione personale possono agevolare le investigazioni e ostacolare la clandestinità. Per contro troveranno nuovi spazi le attività criminali dei colletti bianchi tecnologici: sarà senz'altro questa una delle grandi sfide del futuro (torneremo nel merito alla sezione 5.3).

4.2 Lo stato sociale

Il discorso sulla criminalità si è limitato alla repressione, perché con la prevenzione entriamo nella questione più generale delle politiche di Welfare: intervenire per favorire l'inserimento e diminuire le disparità di accesso al lavoro dovrebbe abbattere la propensione al crimine[12], in particolare nei figli degli immigrati. Quello delle seconde generazioni è un problema di grande rilievo[13]: su di esse si gioca infatti il tentativo di evitare che la composizione etnica si sclerotizzi, coincidendo con una stratificazione sociale aggravata magari da una maggiore propensione all'illegalità.

Come dosare le risorse tra interventi immediati per frenare il crimine e politiche sociali a lungo termine, è questione che non si può risolvere prescindendo dalle preferenze valoriali: mi limito a costatare che solitamente essere sensibili ad un problema porta a chiedere misure immediate; appellarsi alla prevenzione invece, per quanto si possa trattare dell'opzione di fatto più efficace in prospettiva, è spesso equivalente psicologico di deferimento ad un vago futuro (quello che in gergo giudiziario-parlamentare si chiama "insabbiamento"; si veda del resto la nota 82), elegante surrogato del fatalismo dichiarato – riflessi naturali in chi non sente il problema come urgente[14].

Il ruolo delle politiche sociali non si limita naturalmente alla riduzione della devianza. è bene introdurre a questo punto un'importante distinzione, quella tra interventi pubblici a favore dello sviluppo e politiche di equità (il Welfare propriamente detto)[15]. Lasciando agli economisti la discussione sull'opportunità dei primi, appare chiaro che compito delle seconde è proteggere gli strati più disagiati. Si noti che non si tratta necessariamente di una scelta altruistica, perché anche per i più abbienti ha una valenza di contratto assicurativo contro possibili rovesci di fortuna individuali, e indirettamente di prevenzione contro il crimine causato dalle eccessive disparità economiche. Tale assicurazione può essere particolarmente desiderabile, a costi ragionevoli, nelle circostanze attuali: infatti la mobilità sociale di un sistema fortemente innovativo garantisce assai meno le rendite di posizione. Vi è poi una seconda motivazione di ordine squisitamente utilitaristico: il benessere generato (direttamente, almeno) dal possesso di un Euro è maggiore per il povero che per il ricco.

Sull'altro piatto della bilancia stanno i costi dello stato sociale, aggravati dall'inefficienza – spesso anche dalla corruzione – del sistema pubblico[16] (il nostro certo non brilla). In questo momento in particolare, i processi demografici in corso, la grande potenzialità di afflusso migratorio e la nuova "sfida americana", affiancata da quella dei paesi dell'estremo oriente, mette le società europee di fronte al dilemma se sia possibile (e come) perpetuare il modello di matrice socialdemocratica che le aveva caratterizzate in questo secondo dopoguerra. Più specificamente:

1.      l'invecchiamento atteso rende il carico pensionistico, specie nei sistemi a ripartizione, difficilmente sopportabile per la popolazione attiva del futuro, in particolare di fronte a limiti di età lavorativa simili agli attuali (a meno di straordinari incrementi di produttività);

2.      la globalizzazione economica mette i sistemi nazionali in competizione tra loro per attrarre gli investimenti;

3.      la parte del sistema destinata a garantire i lavoratori (e ad assistere gli imprenditori) – e che talvolta si traduce in protezionismo – viene pagata dai membri della collettività non solo come contribuenti, ma anche come consumatori; inoltre queste tutele tendono a ritorcersi contro chi non è ufficialmente inserito nel mondo produttivo (cfr. la parte iniziale del par.2);

4.      altri sistemi produttivi investono molto nella ricerca tecnologica e nell'istruzione dei giovani (un elemento-chiave nella competitività internazionale); le economie che resteranno indietro rischiano un rapido impoverimento: anche volendo destinare molte risorse alla solidarietà, si deve convenire sul fatto che tali risorse dovranno ben essere prodotte da qualche parte, non è certo possibile indebitare all'infinito le generazioni a venire. Come si dice talvolta, bisogna anche "abbeverare il cavallo";

5.      il sistema di Welfare mette le basi per un duplice conflitto di interessi tra autoctoni ed immigrati. Da un lato i contribuenti possono temere di dover spendere anche per i nuovi arrivati e ancor più per le seconde generazioni; dall'altro le fasce autoctone più deboli, beneficiarie attuali di politiche di Welfare, possono temere di dovere dividere con i nuovi arrivati risorse già scarse (ad esempio assegnazione di case o sussidi). Questo si sommerebbe alla possibile competizione sul mercato del lavoro; alcuni aspetti (ad esempio l'assistenza sanitaria o altre garanzie di Welfare) potrebbero inoltre, almeno in linea di principio, fungere da potente elemento di richiamo per l'immigrazione[17].

Vi è però un terzo tipo di azione pubblica oltre a quelle individuate in nota 65; un'azione di carattere eccezionale, particolarmente rilevante per il nostro oggetto: l'amministrazione della transizione in presenza di una svolta epocale, che assume facilmente carattere di conservazione dell'assetto sociale.

La crisi che la nostra società sta attraversando, se si rivelerà di tale portata, ha un illustre precedente: la rivoluzione industriale[18]. Sarà il saggio di Polanyi, con la sue visioni apocalittiche ma meditate, a mostrarci alcune analogie con essa e a illustrarci la natura di queste politiche di protezionismo sociale.

Ecco come espone il suo argomento principale (come gli altri, ribadito con veemenza in molti passi del volume): "La nostra tesi è che una valanga di sconvolgimento sociale, che superava di gran lunga quella del periodo delle recinzioni, si abbatté sull'Inghilterra [nel XVIIIº secolo]; che un meccanismo istituzionale completamente nuovo [il sistema di mercato autoregolato] cominciò ad agire sulla società occidentale; che i suoi pericoli, che risultarono evidenti al loro primo apparire, non furono mai superati; e che la storia della civiltà del diciannovesimo secolo è fatta di innumerevoli tentativi di proteggere la società contro le distruzioni di un simile meccanismo" (p.53-4). Guardando al passato Polanyi poteva affermare che "Prima che il processo fosse avanzato di molto i lavoratori erano stati ammucchiati assieme in nuovi luoghi di desolazione, le cosiddette città industriali dell'Inghilterra; la gente di campagna era stata disumanizzata e trasformata in abitanti di slums, la famiglia era sulla via della perdizione e grandi parti del paese scomparivano rapidamente sotto i cumuli di polvere di carbone e di detriti vomitati dai «satanici opifici». Scrittori di tutte le posizioni e di tutte le parti, conservatori e liberali, capitalisti e socialisti invariabilmente facevano riferimento alle condizioni sociali durante la rivoluzione industriale come ad un vero abisso di degradazione umana[19]." (p.53; per una simile descrizione degli effetti delle recinzioni cfr. p.47). Tanta foga si deve probabilmente al fatto che il laburista Polanyi, che scriveva negli anni drammatici della seconda guerra mondiale, guardasse il realtà all'incipiente compimento di quel processo autodistruttivo (annunciato dalle enclosures e culminato in catastrofe planetaria con la successione di avvenimenti prima guerra mondiale-crisi del '29-tragedia del nazismo-seconda guerra mondiale), innescato a suo parere dall'economia capitalista: "La produzione per mezzo della macchina in una società commerciale implica in realtà una trasformazione che può essere paragonata a quella della sostanza naturale ed umana della società, in merci. La conclusione per quanto macabra è inevitabile; niente di meno potrà bastare allo scopo: ovviamente lo sconvolgimento causato da questi strumenti spezzerà i rapporti dell'uomo e minaccerà di annientamento il suo ambiente naturale[20]. Un pericolo del genere è in realtà imminente. Ne percepiremo il vero carattere esaminando le leggi che governano il meccanismo di un mercato autoregolato" (p.56).

La sua proposta è allora quella di rallentare la trasformazione; del resto il giudizio sulle politiche di protezione sociale – dall'alba dell'evo moderno, passando per la Poor Law elisabettiana del 1601, e fino al sistema di Speenhamland (introdotto nel 1795 e abolito nel 1834) – è complessivamente positivo, nonostante ne riconosca il carattere paternalistico e l'esito fallimentare[21]; si veda ad esempio quanto scrive alle pp.47-50: "Il re e il suo consiglio, i cancellieri e i vescovi difendevano il benessere della comunità e la sostanza umana e naturale della società contro questo flagello; quasi ininterrottamente per un secolo e mezzo, cominciando al più tardi nell'ultimo decennio del 1400 e fino al 1640 circa, essi lottarono contro lo spopolamento. (…) Gli storici del diciannovesimo secolo furono unanimi nel condannare la politica dei Tudor e dei primi Stuart come demagogica se non addirittura come completamente reazionaria. (…) Una tale facile prevalenza degli interessi privati sulla giustizia [le recinzioni si svilupparono a dispetto delle regolamentazioni] è spesso considerata come un segno certo dell'inefficienza della legislazione e la vittoria della tendenza vanamente ostacolata viene successivamente portata come una prova decisiva della pretesa futilità di un «interventismo reazionario». Una posizione del genere sembra tuttavia non cogliere affatto il problema: perché la vittoria finale di una tendenza dovrebbe essere assunta come prova dell'inefficacia degli sforzi per arrestarne il progresso? E perché il fine di queste misure non dovrebbe essere visto proprio in ciò che esse conseguirono e cioè nel rallentamento del ritmo della trasformazione? Ciò che è inefficace nell'arrestare completamente una linea di sviluppo non è per questo motivo completamente inefficace. Il ritmo del cambiamento spesso non ha minore importanza della direzione del cambiamento stesso, ma mentre quest'ultimo spesso non dipende dalla nostra volontà, il ritmo al quale permettiamo che il cambiamento abbia luogo può dipendere da noi".



[1] Molti osservatori fanno riferimento ad un astratto "immaginario collettivo", sottovalutando così perlomeno nel tono (che conta a volte quasi quanto il contenuto) l'estrema tangibilità dei danni che il crimine infligge alle vittime e l'importanza del fenomeno a livello aggregato.

[2] Ci occupiamo per ora solo di questa perché, a prescindere dalla reale incidenza finale (assai ardua da valutare), è più direttamente collegata alla sicurezza e al benessere personale: è quindi decisiva per la percezione che il cittadino ha della questione. Per alcune valutazioni sul crimine organizzato si vedano le conclusioni..

[3] In generale tutte le precauzioni (dalle serrature agli antifurto, dalle assicurazioni alla vigilanza privata) hanno un costo.

[4] Similmente ad anziani ed incolti, molti stranieri sono privi di strumenti culturali e sociali di difesa; in aggiunta, molte malavite "etniche" circoscrivono la propria azioni al gruppo di appartenenza. Su questi punti si vedano Barbagli pp.74-5 e Furcht 1993 p.228.

[5] Si potrebbe anche argomentare che sussista un danno anche verso coloro che hanno una propensione all'illegalità: un'insufficiente repressione li indirizzerebbe infatti verso una carriera, quella criminale, usualmente pericolosa e socialmente marginale; la tentazione è particolarmente forte per le seconde generazioni, cfr. l'inizio del 4.2.

[6] Questi argomenti sono trattati in termini formali nell'Appendice a Furcht 1996, cui rimando; il contributo fondamentale per questo tipo di analisi è quello di Gary Becker (1968), recentemente tradotto come Delitto e castigo in L'approccio economico al comportamento umano, Il Mulino,1998.

[7] Per gli stranieri è anche rilevante la questione dell'informazione: normalmente è minore all'estero che in patria, ma la presenza di reti informali di appoggio può addirittura rovesciare questo fattore; recarsi in un paese europeo significa di norma anche accedere ad un ambiente più ricco.

[8] Ce n'è per tutti: in campo giudiziario, migratorio, fiscale ed amministrativo. Pesano inoltre alcune inveterate abitudini: anzitutto quella del continuo ricorso a provvedimenti una tantum (nessuna meraviglia che poi si sia indotti nell'errore di tradurre "ogni tanto" invece "una volta solamente"), e poi quella di legiferare più in vista della declamazione di principi che dell'applicazione effettiva.

[9] Barbagli, p.121: "La crescita della criminalità degli irregolari è stata tuttavia favorita anche dall'inefficienza del sistema di controlli interni del nostro paese". Ipotizza poi che le restrizioni all'immigrazione abbiano giocato a favore della propensione al crimine (p.126): "[Rispetto alla situazione ante-crisi petrolifera] vi sono state rilevanti trasformazioni nelle dimensioni e nella natura dell'immigrazione irregolare. Questo tipo di immigrazione esisteva anche prima di allora. Ma le politiche altamente restrittive seguite in tutti i paesi europei dopo il 1973 hanno fatto sì che non solo il numero degli irregolari aumentasse, ma anche che la loro condizione mutasse. Tollerata fino ad allora, l'immigrazione clandestina è stata ovunque combattuta nel ventennio successivo (anche se non sempre con successo, come si è visto a proposito del nostro paese), finendo così per selezionare sempre più spesso persone particolarmente orientate al rischio e alla devianza penale".

[10] Il crimine come ripiego (se non come rimedio estremo contro la fame) è l'ipotesi standard, cui sembra aderire anche Barbagli (p.139): "…. Ancora prima di partire, questi migranti hanno assorbito la meta del successo economico (…). E alcuni, quando si rendono conto che raggiungere questo obiettivo non è loro consentito, scelgono la strada delle attività illegali". Aveva però osservato a p.126, citando dati ministeriali: "… degli immigrati presenti nelle carceri italiane negli anni '80, il 45% aveva commesso un reato entro un mese dall'ingresso nel nostro paese, un altro 19% entro un anno". Queste cifre sono compatibili con la presenza di una grande proporzione (rispetto alla quota deviante di stranieri) di progetti migratori delinquenziali fin dall'origine.

[11] Osserva Barbagli, p.120-1: "Ai numerosissimi immigrati venuti per trovare lavoro se ne sono aggiunti altri in cerca di esperienze nuove ed eccitanti, di avventure, di occasioni di rapido arricchimento e dunque con una propensione per il rischio e una disponibilità a violare la legge molto maggiori. Alcuni di questi appartengono a potenti organizzazioni criminali internazionali. Altri fanno invece parte di gruppi piccoli e coesi che vengono in Italia con l'unico fine di svolgere remunerative attività illecite. è il caso, ad esempio, degli albanesi o dei nigeriani che reclutano prostitute nel loro paese, si assicurano con varie tecniche la loro subordinazione, le immettono nel mercato italiano. Ma è anche il caso degli adulti (spesso nomadi ex-jugoslavi) che addestrano i figli a compiere furti, acquistano o affittano altri minori dalle famiglie di origine, preparano documenti falsi, pianificano e realizzano l'ingresso nel territorio italiano (Bouchard 1995 [Minori stranieri e criminalità organizzata, in Le nuove criminalità a cura di M.Cavallo]). Altri ancora si muovono all'interno di reti informali."

[12] Nel quadro rispettivamente dell'ipotesi del "controllo sociale" e della "privazione relativa", cfr. Barbagli cap.Vº.

[13] è soprattutto Barbagli ad occuparsene, cfr. pp. 30-1, 133 e 137-9; anche se a segnalare la questione basterebbe l'evidenza di quanto succede in paesi vicini al nostro quali la Francia. Detto per inciso, quando si parla di programmazione dei flussi in entrata sarebbe bene comprendere nei calcoli anche gli apporti indotti dai flussi originari, quali i ricongiungimenti familiari e per l'appunto le seconde generazioni.

[14] Pensiamo da una parte alla questione del crimine, o del controllo dell'immigrazione – buoni controesempi sono costituiti dall'evasione fiscale, dall'inquinamento o dalle ingiustizie sociali.

[15] Scrive La Malfa: "Nel dibattito (…) si rischia di confondere due diverse impostazioni delle politiche economiche e sociali alle quali è legata la storia e il successo dei governi dell'Europa occidentale. Una è consistita nell'uso attivo delle politiche monetarie e fiscali per sostenere l'economia e rafforzare lo sviluppo. L'altra è rappresentata dalle politiche di sicurezza sociale e di ridistribuzione dei redditi che vanno sotto il nome di Welfare State. Si tratta di cose completamente diverse nella loro ispirazione e nelle modalità di funzionamento. Le prime fanno capo al pensiero di Keynes. Le altre al Piano Beveridge. Keynes è un liberale, anche se un liberale moderno, che dubita che da solo il sistema capitalistico sia sempre in grado di produrre la piena occupazione. Beveridge è un socialista democratico [anche se l'appartenenza partitica era, al pari di Keynes, liberale; sul loro rapporto col Welfare State del governo Attlee si veda anche una menzione nell'articolo di Polito] che pensa soprattutto alla redistribuzione dei redditi a favore dei ceti più deboli."

[16] Stando così le cose, lo svantaggio non si esaurirebbe nei puri costi diretti: corruzione ed inefficienza possono essere considerate anche come mali sociali, capaci con il loro esempio di minare in profondità la vita della collettività.

[17] Può essere istruttivo il precedente delle Poor Laws; cito al proposito Polanyi (p.112), sul quale tornerò diffusamente tra breve: "In un sistema nazionale del lavoro [contrapposto a una congerie di aree subregionali – oggi invece il passaggio può essere da un sistema nazionale ad uno planetario, cfr. l'amara considerazione di Gallino alla nota 49], l'organizzazione locale della disoccupazione e l'assistenza ai poveri era un'evidente anomalia. Quanto maggiore era la varietà dei provvedimenti locali per i poveri, tanto maggiore il pericolo per la parrocchia bene amministrata che veniva inondata dagli indigenti di professione". Sulla corruzione generata dal sistema cfr. invece Polanyi p.127.

[18] Ironico Hartwell nei confronti dell'abuso di richiami di questo genere: "… Oltre a ciò, c'è anche la propensione a cercare le «lezioni della storia». L'abitudine di pensare storicamente è ora [1969] quasi universale, a tal punto che si trova a stento un problema contemporaneo la cui soluzione, in bene o in male, non sia influenzata da richiami alla storia" (p.64). Dovendo però intestardirmi a cercare un antecedente a quanto sta succedendo, non trovo altra discontinuità che sia anzitutto tanto decisiva, e poi anche sottilmente pervasiva delle modalità quotidiane di esistenza, foriera inoltre allo stesso tempo di grandi potenzialità di progresso e di profondi disagi perlomeno nella fase di adattamento. Il dibattito storico su quel cambiamento presenta sconcertanti somiglianze con quello odierno: "In larga misura, i contrasti sono sorti non in seguito ad una discussione obiettiva dei fatti che ci sono noti, ma a causa di un disaccordo di fondo sui valori e sull'ipotesi che il mutamento sociale ed economico sia effettivamente auspicabile" (Hartwell, pp. 345-6).

[19] Questo è vero, anche se il dibattito storico è sempre stato acceso: si veda Hartwell, cap.Xº.

[20] In più passi Polanyi si rivela un precursore della moderna sensibilità ecologica.

[21] "Nel 1834 il capitalismo industriale era pronto ad iniziare e venne introdotta la Poor Law Reform. La Speenhamland Law che aveva protetto l'Inghilterra rurale, e quindi la popolazione lavoratrice in generale da tutta la forza del meccanismo di mercato, stava consumando il midollo della società. Al momento della sua abrogazione masse enormi della popolazione lavoratrice assomigliavano più agli spettri che possono apparire in un incubo che non ad esseri umani. (…) Il meccanismo del mercato si andava affermando e proclamava la necessità del proprio completamento: il lavoro dell'uomo doveva diventare una merce. Il paternalismo reazionario aveva invano tentato di resistere a questa necessità. Uscendo dagli orrori di Speenhamland ci si precipitò ciecamente verso il riparo di un'utopistica economia di mercato" (p.130).



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